A volte un libro prende significati o sfumature diversi in base allo stato d’animo di chi lo legge, senza addentrarci nei concetti semiotici di significato e significante che probabilmente non sono più alla nostra portata essendo passato qualche anno dall’esame universitario, possiamo però aiutarci con il nostro amato vino anche in questo caso. Lo stato d’animo è importante anche quando beviamo un vino, per le ricorrenze festaiole si sa che tocca alle bollicine accompagnarci, così come per un pranzo di lavoro meglio evitare vini troppo alcolici, senza dimenticare i vini definiti proprio con uno stato d’animo, ovvero la meditazione.
Bene, un ampio preambolo per arrivare dove? A confessare che recensire un libro onestamente non è facile, perciò ammetto subito che nel leggere “Cinque Rose di Negroamaro” inizialmente ho avuto molte perplessità dovute in parte al vissuto storico della mia regione (il Lazio) che poi, a distanza di tempo e con un ‘affinamento’ realizzato lasciando sedimentare la materia, sono via via scomparse. Ma non del tutto. Il lettore, per certi versi, ha contribuito a dare il suo significato alla prima parte del libro e non è stata un’esperienza piacevole.
Ma andiamo al dunque. Quando si parla di Negroamaro e di rose non si può non andare immediatamente al “Five Roses” dell’azienda Leone De Castris, rosato famoso nel mondo anche perché in un certo senso ‘nasce’ già cosmopolita. E in effetti proprio di quello si tratta, il libro “Cinque Rose di Negroamaro” racconta un capitolo importante dell’epopea di una famiglia storica della vitivinicoltura nazionale e pugliese in particolare. Siamo nella seconda guerra mondiale, l’Italia è sconvolta dagli eventi bellici e da una gestione a dir poco approssimativa di un’alleanza che sarà quanto di più deleterio le nostre terre abbiano mai visto in millenni di storia conosciuta.
Questo è il dato di partenza per una storia che a tratti sembra inverosimile, che ha per protagonista una geniale intuizione imprenditoriale, frutto di una passione smodata per il proprio vino, inteso come prodotto di generazioni e di sacrifici che perdono le loro origini nei secoli precedenti. Il “Five Roses” ha quindi il ruolo di primo attore in un libro che si legge bene e che rappresenta un caso abbastanza raro nel panorama della letteratura enoica tricolore. D’altronde in pochi possono vantare una storia così lunga ma soprattutto così emozionante. Un bel racconto, che dalla seconda parte in poi diventa davvero interessante e coinvolge verso un finale che si delinea mano a mano che le ansie legate ad un raccolto, considerato come il bene più prezioso della famiglia ancorché difficile da smerciare, intravedono una soluzione possibile. Ingegnosa, di rottura con la tradizione ma, alla prova dei fatti, incredibilmente efficiente, la ‘scoperta’ di “Don Pierino” salva il raccolto, l’economia della famiglia e degli operai, fa felici gli americani di stanza a Brindisi e moltissimi altri successivamente dando vita ad un rosè tra i più famosi del mondo. E questo è un merito indiscusso.
Qual è dunque il problema che ha angosciato il sottoscritto nella veste di lettore? Senza scendere nei dettagli della ‘scoperta’ di Don Pierino che lascio a chi mi seguirà nella lettura del volume (Autore dei testi: Antonio Massara – Progetto editoriale a cura di Enotime – COPYLEFT), evidenzio qualcuna delle sgradevolezze che a parer mio caratterizzano il bouquet del libro-vino “Cinque Rose di Negroamaro”. Un prodotto in generale ricco di profumi e di sapori di grande livello, ottimo sotto diversi punti di vista, ma con il difetto di parlare a volte come un ricco aristocratico latifondista che poco ha avuto modo di capire della seconda guerra mondiale e di quello che è successo in Italia in quegli anni.
Pensando alla vendemmia subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 nel volume Don Pierino la vede così: “Se ci saranno abbastanza uomini non impegnati a scappare, a fuggire, a limitare il caos che è lì lì per scoppiare, ce la farà. Se invece tutti gli esseri umani saranno in movimento per salvare almeno la pelle, l’uva resterà attaccata alla vite, e infine si perderà. Un anno di fatiche perduto, la cantina semivuota, a velocità ridotta. Un disastro. Quando Pierino pensa a questa eventualità gli viene voglia di battere i piedi per terra dalla rabbia”.
Ecco il problema, l’uva assume un valore quasi metafisico che in realtà non ha e non può avere in un contesto come quello. Ma il problema, non lo nascondo, nasce anche dal lettore. Chi è nato vicino Roma, se anche non li ha vissuti di persona, sa cosa sono stati quegli stessi mesi per i suoi genitori e nonni e non riesce facilmente ad accettare una visione così riduttiva, quasi dissacrante di quella tragedia. Da queste parti, vicino Roma ma forse salendo lungo la penisola la situazione è stata anche peggiore, non era possibile pensare al raccolto visto che i bombardamenti si susseguivano, il fronte aperto il 22 gennaio 1944 con lo sbarco di Anzio ci mise alcuni mesi ad arrivare fino a Roma e nel frattempo spazzò via tutto e tutti. Difficile pensare all’uva quando le case di campagna erano state requisite dall’esercito tedesco per essere adibite a depositi di munizioni (meno individuabili rispetto ai centri abitati), centri viveri e quant’altro. Difficile poter battere i piedi per terra per l’uva rimasta sulle viti quando in mezzo a quei filari c’erano esecuzioni sommarie ed eccidi. Difficile non farsi prendere dal caos quando alcuni tuoi concittadini invece di pensare alla vendemmia o alla potatura sono stati trucidati in una cava dismessa sulla via Ardeatina insieme ad altre 330 persone. Pensare quindi che un grande uomo, un imprenditore di carisma e dalla visione aperta del mondo possa aver ridotto ad un semplice ‘caos’ che poteva rovinare la propria vendemmia quello che successe in Italia tra il ’43 e il ’45 sinceramente mi crea crampi allo stomaco simili a quelli provocati da un vinaccio fatto male, ma proprio male. Il Five Roses nasce sì da un’epopea che va ricordata, presa ad esempio e anche insegnata per certi versi, ma avrei preferito un’attenzione diversa per il contesto. Il vino deve essere espressione del terroir ma non può dimenticare il territorio, la sua gente, la sua storia… Altrimenti da cosmopolita diventa apolide.
2 risposte
Da Salentino ed estimatore del “Five Roses” sono d’accordo con le conclusioni di Fabio Ciarla.
Immagino (e spero) che la frase citata posta sulle labbra di don Pierino sia una finzione letteraria, ma in ogni caso di cattivo gusto. E suppongo che tanto forte sia stata la tensione dell’Autore del libro verso l’apologia del vino da portarlo a dire cose del tutto decontestualizzate. E mi chiedo quindi con quali scopi il libro sia stato scritto.
Fosse autentica e vera la suddetta frase, non berrei mai più il Five Roses. Mi si rivolterebbe lo stomaco.
Sono salentino anch’io ma sono cresciuto “in giro”, e da relativamente pochi anni vivo a Lecce. Quindi ho uno sguardo un po’ distaccato.
La mia impressione e’ che da queste parti solo chi e’ andato in guerra si e’ accorto di quello che stava succedendo. Qui non ci sono piu’ i busti del duce, ma le scritte fasciste sul palazzo della questura ci sono ancora! E nessuno si e’ preoccupato di toglierle perche’ probabilmente non si sono nemmeno accorti che ce le hanno messe.
Occorre anche tenere presente che nel Salento i tedeschi non hanno avuto tempo di fare danni. Poco piu’ a Nord, nel barese, gia’ le cose sono andate in maniera diversa. Il contesto storico, dal punto di vista dell’imprenditore agricolo, era proprio quello: il caos. E mi sembra del tutto normale che nel caos egli cercasse di salvare il raccolto.
Insomma, se la frase non e’ vera mi sembra senz’altro verosimile.
Non per questo mi privero’ del Five Roses. Non so chi ha scritto il libro, capisco che possa dare fastidio che si parli del periodo post-armistizio senza menzionare l’invasione tedesca e la Resistenza, ma il “terroir” e’ proprio questo.