Inizia dalla Jura francese il contributo alla causa “acquabuonaiola” dell’amico giornalista Massimo Zanichelli. Già collaboratore per la Veronelli Editore, anima degustatoria e letteraria dell’associazione Go Wine, di cui cura la Guida alle cantine d’Italia e i periodici di approfondimento, fra le colonne storiche e portanti della Guida Vini de L’Espresso, Massimo scrive libri e assaggia senza sosta. Sono saggi e assaggi. Non dimenticandosi del suo vecchio e primigenio amore: il cinema, sul quale ha scritto e ancor scrive, scoprendosi nel frattempo ispirato regista. Una grande penna – penna sensibile – la cui collaborazione ci onora.
Dislocata a est della Borgogna e compresa tra la piana di Bresse e le catene montuose della parte più orientale della Francia al confine con la Svizzera, la Jura è terra di raro fascino che produce vini – soprattutto bianchi – tanto irriducibili quanto originali, la cui longevità è pari solo alla loro unicità nel panorama enologico internazionale. Eppure, nonostante la sua antica bellezza, la Jura è una zona poco conosciuta e frequentata: non la favoriscono la posizione geografica decisamente decentrata quanto lo stile analogamente “borderline” dei suoi vini. Qui – su terreni marnosi alle pendici delle montagne della Jura, dove il clima è decisamente continentale (gli inverni possono essere particolarmente rigidi) e dove i vigneti dai 250 metri di altitudine si spingono fino a quota 500 – accanto a varietà altrettanto autoctone come il Poulsard e il Trousseau, e ad altre non meno “francesi” come lo Chardonnay e, in misura inferiore, il Pinot nero, dimora infatti un’uva dalle caratteristiche uniche: il Savagnin. Parente stretto, quasi un cugino, del traminer non aromatico (pare che la sua genetica lo apparenti a quello più neutro di Heiligenstein, in Alsazia, dove viene commercializzato con il nome di Klevner o Klevener di Heiligenstein), questo vitigno tardivo, ricco in alcol e in acidità, genera dei bianchi di stile ossidativo (anche se non mancano versioni più fresche e “moderne”, soprattutto nei Savagnin delle appellation di Arbois e Côtes de Jura) prodotti con un invecchiamento in botti che non vengono rabboccate per favorire con la scolmatura la formazione “sous voile”, come viene localmente chiamata l’equivalente della “flor” dello Sherry, ovvero un coriaceo “velo” o strato di lieviti che si forma a contatto con l’aria e che sigilla l’evoluzione del vino. Questo è il processo con cui viene prodotto il Vin Jaune (dal colore giallo carico del vino dopo il lungo affinamento in botte, in genere non inferiore ai sei anni) e lo Château-Chalon, che è il “vino giallo” più prestigioso (ma non necessariamente il più buono o personale). Sono bianchi che non assomigliano a nessun altro e che solo stilisticamente possono essere paragonati a uno Sherry secco. Associano infatti la complessità aromatica e gustativa di un vino ossidativo – con spiccate note terziarie e sentori di frutta secca – a peculiari tensioni iodate e a un’acidità quasi citrina che conferiscono dinamismo e contrasto, garantendo una longevità non inferiore ai 50 anni. Il Pinot nero e lo Chardonnay (noto anche come Melon d’Arbois) arrivano naturalmente dalla vicina Borgogna, ma godono qui di una tradizione antica che risale al Medioevo, e la loro qualità, nelle sue migliori versioni, spesso non sfigura nei confronti dei più celebrati (e certo a riguardo inarrivabili) “cugini”. Il Poulsard, chiamato anche Ploussard o Pupillin, diffuso soprattutto nella parte nord, rappresenta il 20% circa della produzione complessiva (che attualmente coinvolge 1850 ettari vitati disposti su 6 appellation per una volume di 85.000 ettolitri), e genere vini rossi sottili sia nel colore (più rosé che rosso, tendente all’aranciato sui bordi, spesso indicato con la parola “corallo”) sia al gusto, che si offre saporito e bevibile. Non è da meno in termini di personalità il Trousseau, tipico della zona di Montigny-les-Arsures, un altro autoctono a bacca rossa che genere vini profumati e avvolgenti. Se la città più importante della Jura è Lons-le-Saunier, gli epicentri enoproduttivi sono, partendo da sud, L’Étoile, la cui appellation è specializzata soprattutto in vini spumanti, Château-Chalon, di cui si è detto, e, nella parte più a nord, Arbois, dove si producono alcuni dei vini più eleganti del comprensorio. Dopo Arbois e Château-Chalon, la terza appellation di rilievo è Côtes de Jura, che è anche la più estesa (comprende tutto il territorio “jurassien”) e che non infrequentemente può offrire prestazioni di pregio.
Château-Chalon – che è il nome di una piccola appellation di una cinquantina di ettari e non quello di una cantina sul modello bordolese (sulle prime si potrebbe essere tratti in inganno) – è un antico, intatto villaggio che rappresenta il cuore della Jura e la nobile tradizione “ossidativa” di queste terre: uno Château-Chalon è sempre un Vin Jaune prodotto con uve savagnin , invecchiato “sous voile” per almeno 6 anni e tre mesi (i vecchi del luogo dicono «6 anni, 6 mesi e 6 giorni») in botti in cui non viene effettuata opera di colmatura (ouillage) né tantomeno di travaso (soutirage), e imbottigliato in particolari bottiglie un po’ tozze da 62 cl. chiamate clavelin, dove può invecchiare per non meno di 50 anni e per una durata addirittura secolare (ancora oggi si assaggiano delle bottiglie del Settecento!). L’origine di questo particolare formato è nella resa di un litro di vino dopo la durata dell’invecchiamento, quantificata proprio in 62 cl. I vigneti esposti prevalentemente a sud-ovest si allungano su pendii ai piedi di pareti rocciose, e dimorano su terreni marnosi ricoperti di pietre calcaree. Dopo un infruttuoso tentativo di visitare la celebre cantina di Jean Macle, produttore leggendario della zona, entriamo nella villa d’epoca di Jean e Chantal Berthet-Bondet, elegante, accogliente e affiatata coppia di coniugi e agronomi il cui domaine è forse un po’ sottovalutato dalla critica, benché il rendimento della gamma produttiva non sia esente da qualche saliscendi nelle prestazioni. Il Côtes de Jura Tradition 2010 è ad esempio un felice taglio d’impianto tradizionale di chardonnay (70%) e savagnin (30%), che trascorre due anni in barrique “sous voile”, che profuma di frutta secca e curry, che ha un palato fresco, teso e lungamente nocciolato, e che affronta con tranquillità diversi giorni al fresco (o nel freddo del frigo) dopo la stappatura. Parimenti, lo Château-Chalon 2006 (imbottigliato a marzo 2013), uno dei migliori millesimi assaggiati tra i recenti di questo domaine, è un vino sul cui futuro scommetterei: accanto alla tipica palette sensoriale di marca ossidativa, esprime infatti un vitalità iodata (nette le analogia con l’ostrica e vive le tensioni “marine” al palato) e un bilanciamento interno tra succo e acidità che dona gusto ed eleganza, ora e per diversi, promettenti lustri a seguire. Più incerto invece il Côtes de Jura Tradition Vin de Paille 2008 (da uve chardonnay, savagnin e poulsard), che al mallo di noce e alla confettura di mela cotogna affianca delle note meno nobili di grafite e un passaggio gustativo tendente alla rigidezza. Il Vin de Paille è un’altra “specialità” della tradizione enologica della Jura, ed è un “vin liquoreux” da uve fatte appassite su graticci. È invece un “vin de liqueur” il Macvin du Jura, dove la fermentazione viene arrestata con l’aggiunta di un’acquavite locale, l’Eau de vie de Marc, che in questa versione è invecchiata per due anni e che viene aggiunta al succo d’uva non fermentato con un passaggio successivo di due anni in botte. Profuma di erbe di montagna e panpepato, e ha palato nobile, denso e lungo, con gran finale di uva passa.
Arbois è l’appellation che prende il nome dall’omonima, graziosa cittadina che è l’epicentro culturale e produttivo della Jura. Qui c’è il miglior ristorante del dipartimento, Jean-Paul Jeunet, la cui contemporanea cucina vibra di sentimenti e umori territoriali (notevoli il “volaille de Bresse” alle spugnole e i piatti a base di selvaggina) e che offre la miglior carta dei vini del comprensorio. Qui c’è il Musée de la Vigne et du Vin (a poca distanza dal ristorante). Qui c’è una delle più grandi patisserie di Francia, Hirsinger, celebre per i suoi cioccolati. E questo è il paese di Louis Pasteur, il famoso chimico e biologo che studiò il ruolo dei lieviti nella fermentazione. I suoi vigneti poco fuori Arbois appartengono oggi all’azienda Henri Maire (intraprendente négociant scomparso nel 2003), il cui marchio produttivo Vin Fou è presente ovunque nella Jura. L’appellation Arbois, posta a nord del dipartimento, comprende ben 800 ettari sui 1850 complessivi ed è caratterizzata da una specie di divisione interna, o sottozona, chiamata Arbois-Pupillin, dedicata ai vini prodotti con le uve che arrivano dal limitrofo comune di Pupillin, a sud di Arbois, noto per la bontà dei suoi Savagnin e patria del Poulsard, qui chiamato Ploussard. Il produttore di spicco di questa zona è senza dubbio Pierre Overnoy, il “grande vecchio” della Jura, una sorta di “mito vivente” che ha ispirato più di una generazione di vigneron e che dalla metà del secolo scorso pratica una viticoltura naturale, prima che il biò, come dicono i francesi, venisse codificato e regolamentato (Overnoy smise d’introdurre solforosa nei vini nel 1986!). Questa piccola cantina di Pupillin, che conta su 6 ettari equamente divisi tra Savagnin, Ploussard e Chardonnay, è oggi condotta da Emmanuel Houillon, che l’ha rilevata nel 2001 dopo una vita trascorsa al fianco di Pierre. Ci accoglie con garbo e simpatia Anne, la moglie di Emmanuel, appassionata vignaiola, mentre Pierre fa capolino illustrando il metodo “sous voile” attraverso grafici e diagrammi. I coniugi Houillon sono grandi interpreti del Ploussard non meno che del Savagnin, benché il loro Arbois-Pupillin Chardonnay 2011, proveniente da una tessitura argillo-calcarea, non sia un bianco da sottovalutare in termini di polpa ed eleganza (Anne dice che con l’invecchiamento acquisisce intriganti sentori di pan brioche come un vero Champagne). L’Arbois-Pupillin Ploussard 2011 abbina alla tenue colorazione (il vitigno è debole in antociani) un frutto succoso, tonico, sapido e lungo, estremamente godibile. Di rilievo l’Arbois-Pupillin Savagnin 1999, da vigne trentennali con un lungo affinamento di 7 anni in pièce borgognone senza chiarifica né filtrazione: profilo complesso di noci, nocciola tostata, iodio e cioccolato bianco, con un palato pieno, teso, sapido e lunghissimo. L’Arbois-Pupillin Vin Jaune ne è l’espansione più estrema ed ètonnante sia in termini produttivi (10 anni di affinamento, di cui uno con colmatura e 9 “sous voile” in vecchie pièce) sia in quelli organolettici per un concentrato di carattere e tensione, dove la continua alternanza dei sentori di frutta secca, sottobosco, tartufo e miele di castagno incontrano un viva e lunga corrente acido-sapida al palato. Le vigne di Savagnin di questo Vin Jaune – non meno di cinquant’anni d’età su terreni composti da marne grigie e blu – sono un patrimonio della denominazione.
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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).
3 risposte
Ho avuto la possibilità di fare un tour nello Jura esattamente sei anni fa e forse posso contribuire a colmare la piccola lacuna determinata dalla mancata visita a Jean Macle, il produttore più blasonato dello Chateau-Chalon.
Arrivato senza alcun preavviso alla cantina di Jean nel settembre del 2008, con un poco di sfrontatezza, entrai in quella che sembrava più una cascina che una casa vinicola. Mi intercettò il figlio (o il nipote) di Jean e senza particolari cerimonie mi introdusse nella sala degustazioni: una sala arredata semplicemente con un gran tavolo e qualche armadio. Dopo qualche minuto arriva Jean,, già in là con gli anni e dall’incedere incerto. Confesso che ero un poco imbarazzato, da un lato per il mio modesto francese e dall’altro per essere completamente ignorante di che vino fosse lo Chateau-Chalon. Jean si dimostrò subito ospitale e gentilissimo non facendomi per nulla pesare il mio pessimo francese e la mia non conoscenza del suo prezioso nettare. Mi fece visitare la piccolissima cantina spiegandomi quello che tu hai ben descritto sul processo di vinificazione dello Chateau- Chalon e poi, tornati nella sala degustazioni mi fece assaggiare alcune annate tra cui il 2000 di cui conservo gelosamente due bottiglie.
Questa gentilezza davvero inaspettata nei confronti di un inesperto italiano non me la spiegavo. Macle, il grande Macle, perdeva tempo con me, che potevo si e no comprare 6 o 12 bottiglie.
Quando però Jean si mise a parlare in un italiano non molto migliore del mio francese incominciai a capire.
Non so se molti lo sanno ma Jean Macle ha un antenato italiano che per campare si era trasferito in Francia. Per farla breve siamo rimasti in contatto per qualche anno e conservo accanto alle bottiglie un altrettanto prezioso biglietto di auguri che Jean mi spedì il 20 settembre del 2009 scritto in italiano e firmato Giovanni Masculino (1650).
Grazie del tuo ricordo, Luciano. Purtroppo non ho ricevuto la stessa accoglienza. Motivo in più per ritornarci… 😉