Flashback: schegge di assaggi indietro nel tempo: un contenitore prezioso di momenti importanti, da raccontare e condividere, a tu per tu con bottiglie che restano e che, per una ragione o per l’altra, non si dimenticano. Insomma, di quando il passare del tempo conduce ad un “vecchieggiare” baldanzoso e stimolante, ché quasi il tempo non lo sente più.
Brunello di Montalcino 1999 – Canalicchio Franco Pacenti (collezione privata)
Fresco, slanciato e nobilmente terroso, dal bel frutto di ciliegia, dal commento “silvestre” e dalla droiture tipica di un sangiovese “d’altura”, cerca e trova agilità e brillantezza lungo tutto l’arco gustativo, giocando di snellezza più che di fisicità e accogliendo una timbrica dalle risonanze finanche chiantigiane per garbo e profilatura. La matura impalcatura tannica, dolce e misurata, non ferisce ma accompagna una beva modulata, calibratamente grintosa, vitale. Ottimo!
Rosso 1995 – Gravner (collezione personale)
Un pizzico di volatile in esubero lì per lì tende a confondere i profumi; poi si fa veicolo ideale per instradarli nel verso della nitidezza, via via più manifesta e dettagliata. Legni profumati (dal coté speziato oriental-esotico ) imbellettano un frutto tonico e scuro negli accenti di mora e cassis, dai riflessi decisamente mentolati. Ficcante e caratteriale al palato, fa del grip acido, davvero sentito, la sua caratteristica più evidente. E se pensi che la base costitutiva è merlot (con un po’ di cabernet sauvignon a supporto), ancor di più ti apparirà trasfigurato dallo speciale terroir – terroir di frontiera che sta lassù in Oslavia– e dallo speciale estro. Nel frattempo, erbe selvatiche ed eucalipto a far da sfondo ad un gusto sinuoso, netto, proporzionato, persistente. Il vino è dialettico -come il suo autore d’altronde- ma in bocca va che è una “scheggia”.
Brunello di Montalcino 1983 – San Filippo Rosi (collezione privata)
Brunellone austero, tipico e serioso, che non si sdilinquisce nell’eloquio ma trattiene quanto basta, e morigeratamente centellina, gli umori buoni della terra sua: dall’humus al fogliame, dalle spezie al caffé, esprimendosi secondo un carattere deciso, coriaceo, grintoso, di grande dignità territoriale, fors’anche aiutato in questo dal millesimo in gioco, oltremodo qualitativo.
Una curiosità: il nome del produttore (Ermanno Rosi) non è di quelli che stanno sulla bocca di tutti, ne converrete. Di più, da qualche anno l’azienda, che si chiama ancora San Filippo, è stata acquisita da Roberto Giannelli e la produzione si è indirizzata sui binari di una più aggiornata fisionomia organolettica, debitrice delle rese basse e dei legni piccoli e nuovi. Vedi un po’, a volte, come si muovono le storie.
Chianti Classico Montoro e Selvole 1979 ( collezione personale)
Sottobosco, tabacco dolce, foglie, alloro, spezie…. un naso che, se lo attendi, si fa monumento di chiantigianità. Un naso toscano, ecco, con quella toccante forza espressiva che solo il tempo riesce a regalare. Intendiamoci, non risplende per dettaglio, nitidezza o scansione, ma per sentimento, vocazione, anelito. In bocca il tatto è ancora carnoso, consistente, piacevole da masticare, mentre il gusto si sbriciola in sale, allungando a meraviglia le trame. Polposo e fresco insieme, di carattere conclamato, dichiara strenuamente la sua resistenza al tempo e agli accomodamenti. Sì, è vino old fashioned con mille ragioni dalla sua. Ed è beva magnifica, intrisa di una soavità integra e pura.
Sulla strada che porta a Lamole, a mi-coteau, da vecchie vigne e uvaggi “antichi” (sangiovese, canaiolo, trebbiano e malvasia), Giancarlo Matteuzzi ha concepito piccoli capolavori, di orgoglio e dignità tutti chiantigiani. Le storie poi a volte prendono pieghe strane, magari si perdono per poi ritrovarsi. Oggi, mi dicono, le discendenze nuove di famiglia hanno ripreso in mano l’affaire con piglio deciso, decidendo di reinnestare le vecchie gemme nei ceppi nuovi, stimolando con le uve bianche la voce narrante del sangiovese e decidendo di rientrare nuovamente nella diocciggì Chianti Classico, dopo che l’avevano abbandonata per diversi anni (non so per quale motivo). La domanda è d’obbligo, da che la sfida corre sulla lama del tempo: i miracoli ammetteranno repliche?
Giornalista pubblicista toscano innamorato di vino e contadinità, è convinto che i frutti della terra, con i gesti che li sottendono, siano sostanzialmente incanto. Conserva viva l’illusione che il potere della parola e del racconto possa elevare una narrazione enoica ad atto culturale, e che solo rispettando la terra vi sia un futuro da immaginare. Colonna storica de L’AcquaBuona fin dall’inizio dell’avventura, ne ricopre da anni il ruolo di Direttore Responsabile. Ha collaborato con Luigi Veronelli e la sua prestigiosa rivista Ex Vinis dal 1999 al 2005; nel 2003 entra a far parte del gruppo di autori che per tredici edizioni darà vita alla Guida dei Vini de L’Espresso (2003-2015), dal 2021 rientra nell’agone guidaiolo assumendo il ruolo di referente per la Toscana della guida Slow Wine.