Paul Bocuse è morto. L’annuncio lo dà il Ministro degli Interni francese (peraltro sindaco di Lione) ma è l’Eliseo, soprattutto, a far uscire una lunga nota per ricordarlo come una gloria della nazione. Lo stesso tipo di commiato non mi pare lo abbia ricevuto il nostro Paul Bocuse, ovvero Gualtiero Marchesi, scomparso poche settimane fa. Già questo ci rivela perchè l’Italia non sarà mai come la Francia, quando si parla di autentiche potenze gastronomiche: nel senso di prestigio, fatturati, orgoglio nazionale.
Paul Bocuse nel 1975 ricevette la Legion d’Honneur. A consegnargliela fu direttamente il presidente della Repubblica Valery Giscard d’Estaing all’Eliseo. Per lui Bocuse creerà la famosa Soupe aux truffes noires VGE (non consommé, come scrive Licia Granello su Repubblica), un piatto diventato celeberrimo e che ancora sta in carta nel suo ristorante “madre” di Collonges au Mont d’or, il piccolo paese dove Bocuse è nato e vissuto.
Da noi invece si combatte fra il pauperismo della sinistra e il salutismo di Berlusconi. Ad uscire da questo circolo vizioso molto pochi: D’Alema che lancia Vissani e Prodi che ad un pranzo con i francesi invita Pierangelini a cucinare a palazzo Chigi. Ci risolleva il buon Matteo Renzi che porta prima Netanyahu, premier israeliano, da Pinchiorri a Firenze e poi Hollande, al tempo all’Eliseo, da Bottura alla Francescana di Modena.
I parallelismi sono impietosi. Da Bocuse sono andati tutti in pellegrinaggio, dallo Scià di Persia a Clinton, senza ricordare attori di Hollywood e grandi imprenditori. Da Gualtiero Marchesi andavano i gourmet, i giornalisti e quei tanti (troppi) che una volta usciti da lì si lamentavano di essere stati costretti alla pizzeria, vista l’esiguità delle porzioni. Ma ci sono altri aspetti che raccontano il distacco fra i due paesi: Bocuse aveva lo sparato con i bordini tricolori, Gualtiero non ci risulta. Ma è il meno. Bocuse non solo ha fatto la rivoluzione della nouvelle cuisine ma ha sempre difeso la Francia, e non solo a tavola (da giovane aveva fatto la Resistenza contro i tedeschi, particolare glorioso che in pochi hanno ricordato). Marchesi ha sempre ribadito di non amare la pasta (la serviva, pochi fili a fine pasto), che è poi nel mondo il simbolo dell’Italia. In più ricordava di amare solo lo Champagne. Come se oggi Bocuse avesse sostenuto: bevo solo Chianti, o Prosecco. Queste “accuse” a Marchesi, dimenticate dagli agiografi, le ripeteva Giacinto Rossetti, l’inventore del Trigabolo di Argenta, non uno qualsiasi.
Che poi, alla fine del salmo, il Divino Marchesi verrà ricordato soprattutto per il raviolo aperto, il riso oro e zafferano o il cubo di cotoletta alla milanese, ovvero per creazioni che più italiche non si può. Pochi si interrogano sul ruolo dell’Italia in cucina e inseguono quanti chef nostrani stanno inclusi nella classifica dei 50 migliori del mondo. In realtà dal Dopoguerra in avanti tre sono state le rivoluzioni: la prima è proprio la nouvelle cuisine, il cui manifesto fu firmato nel 1970; l’altra grande rivoluzione è stata quella degli spagnoli, da Ferran Adrià in giù. E l’Italia? L’unico vero movimento che ha modificato non soltanto la percezione della cucina ma di tutto ciò che sta a monte (agricoltura, filiera di trasformazione, pesca) è lo Slow Food di Carlin Petrini. Nouvelle cuisine, Spagna, Slow Food: tre riforme dal Dopoguerra ad oggi, da quando cioé la fame è sparita dal continente come componente tragica ma essenziale nella vita di molti popoli.
Giusto nell’ultimo numero del Gambero Rosso, Stefano Polacchi va alle radici della nuova cucina italiana. Si parla di anni Settanta e scrive di Gianluigi Morini più che di Marchesi. E soprattutto conclude con un’affermazione sicuramente discutibile ma di forte impatto: che la nuova cucina italiana avrebbe potuto vantare Fulvio Pierangelini come capostitpite, se non avesse interrotto il suo percorso nella ristorazione a metà anni Duemila. Anche per questo l’Italia non sarà mai come la Francia.
La foto di Paul Bocuse è tratta da newyorker.com. Quella della Soupe da instagram.com/lesgrandestablesdumonde
Nasce a Viareggio in pieno boom economico (1958). Il babbo lo portava da piccolo a cena da Tito al mitico Sabatini di Firenze. Da qui la grande passione per il cibo. Per quasi 40 anni lavora per il mitico quotidiano Il Tirreno, poi la “meritata” pensione. Ha scritto per tante riviste di viaggi e gastronomia, da Tuttoturismo a Bella Europa al Gambero Rosso. Fra i servizi più divertenti quelli sul Tokay e sulla Bresse, le Landes e lo Yorkshire. Come tanti amanti del cibo va alla ricerca del suo sapore primordiale, e per lui è il budino che gli faceva la nonna con le bustine Elah. Sposato con una giornalista, ha tre figli.