Non bisogna leggere tra le righe, non ci sono dubbi, non importa neanche attendere che la parola venga citata direttamente da Carlo Petrini, è chiaro: lo scopo di Slow Food è la rivoluzione.
La posta in gioco è alta, nonostante nell’immaginario di tutti noi i problemi ambientali siano più facimente collegati a beni di consumo quali le automobili o all’edificazione selvaggia o alle crescenti necessità energetiche, l’alimentazione non ha certo un impatto minore sull’ecosistema globale. Ci si chieda quanto cibo consumi un essere umano in un anno, lo si moltiplichi per 7 miliardi (pur mediando tra chi mangia troppo e chi troppo poco) e poi si aggiunga la scarsa efficienza di una alimentazione carnivora (quanti vegetali consumati per un chilo di carne?) e l’enorme scandalo degli sprechi alimentari…
Una veloce carrellata sulla produzione agricola dai dati FAO (rielaborati da Fresh Plaza):
L’agricoltura mondiale genera 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno; Il 70% delle risorse idriche mondiali viene utilizzato in agricoltura; il 12% dei terreni mondiali viene utilizzato per produzioni agricole.
Un impatto ambientale terrificante, ma anche un mercato terrificante, un mercato su cui ancora la mano lunga delle multinazionali riesce ad arraffare relativamente poco. Solo il 20% del cibo consumato nel mondo è gestito dalle multinazionali, cibo cattivo come specifica Petrini, mentre il resto è prodotto da singoli contadini o piccole aziende e cooperative agricole. Un mercato enorme ma difficilmente raggiungibile, il problema è il solito, quello dell’ultimo miglio, della frammentazione, molto più semplice vendere armi a Stati e gruppi criminali, e poi scatenare qualche guerra affinché le armi vengono usate, che raggiungere capillarmente 7 miliardi di persone (e infatti l’industria militare brilla come fatturato globale).
Ma quando le cose sono difficili da fare ecco che il Capitale non si accontenta di mezzi legittimi (quando mai lo fa?), e scatena i suoi istinti peggiori: proprietà intellettuale, speculazione sui prezzi, selezione e modifica genetica di semi al fine di mettere sotto controllo questo popolo infinito di piccoli produttori. E tutto questo per rovesciare tonnellate di cibo su una minoranza satolla di popolazione, lasciando nella malnutrizione, se non nella fame, ben 850 milioni di persone.
Slow Food nacque da quella costola della sinistra che qualcuno chiamò la “sinistra gastronomica”, quasi fosse una ritirata verso il benessere privato della tavola di fronte alle mancate vittorie degli anni 70. Il manifesto dell’associazione comparve appunto su Il Manifesto, anzi sul supplemento dell’epoca, Il Gambero Rosso, nel 1987, a novembre. Credo di averlo ancora quel foglio, impolverato, in qualche cassetto. Era un inno alla convivialità, alla vita comoda, all’abbandono dell’isteria, all’antitesi del Fast Food che appariva allora anche in Europa (per poi quasi sparire e ripresentarsi più tardi, meglio attrezzato, su un terreno già arato dal rimbecillimento televisivo delle TV commerciali e dalla foga consumistica delle vaste aree ipermercate). Non c’era forse all’epoca la forza eversiva che il movimento ha assunto oggi. Si veniva da tentate rivoluzioni con la R maiuscola, quella del cibo non poteva poi essere presa troppo sul serio.
Ma Slow Food è cresciuta, ha trovato terreno fertile in tutto il mondo, per il suo messaggio universale, perché, a ben vedere, tutti si mangia e tutti, o quasi, si prova gusto a mangiare bene, e ancora di più a mangiare bene e sano. E ora, agli occhi dei suoi stessi fondatori, l’associazione mostra la sua forza: veicolata dal piacere per il cibo corre sul globo la discussione sui mezzi di produzione, sull’accumulazione delle ricchezze, sulle diseguaglianze insostenibili e sempre maggiori, sullo strapotere della finanza, sullo “Stato Imperialista delle Multinazionali” di conio brigatista, ora più che mai esistente e evidente.
Ero a Terra Madre questa domenica, tanti stand, tanto cibo, allegria, una fiera campionaria in apparenza, ma ovunque campeggia il “Messaggio”. Si mangia, si beve e ci si evangelizza. Tutti ci nutriamo, e tutti siamo responsabili, e tutti possiamo scegliere, basta conoscere: la rivoluzione passa da noi!
Una veloce passeggiata tra gli artigiani del gusto, qualche assaggio, qualche biglietto da visita e poi, per caso, mi trovo nel mezzo di un assembramento: tutti i delegati, molti negli abiti tradizionali, le cento bandiere di ogni angolo del mondo, musiciti e danzatori, donne, uomini, neri, gialli, bianchi, pellerossa… inizia la parata. Vengono distribuiti sacchetti con pani da condividere nella festa che seguirà (il pane come alimento essenziale, fonte di vita per la maggior parte dell’umanità) e cartelli da sventolare in tutte le lingue: Buono, pulito e giusto!
Alle foto, ai filmati e a Carlo Petrini, lascio ora volentieri la parola.