Era la metà di maggio e mi trovavo a Verona per guidare una degustazione verticale del Vino Santo trentino della famiglia Pisoni presso gli spazi di Vinitaly International (una verticale dai risvolti indimenticabili), quando Tommaso Iori, che aveva curato l’evento, mi consegna una bottiglietta di vino, dicendomi: «Questo Vino Santo lo conosci?». Al tempo stavo scrivendo il libro sui vini dolci che oggi è nelle librerie da un paio di settimane, le prime consegne per Giunti si stavano pericolosamente avvicinando e Tommaso sapeva che avrebbe aperto una crepa nelle certezze del suo interlocutore. Guardo l’etichetta un po’ naif e confesso la mia ignoranza a riguardo. Chi ha del resto mai sentito parlare del Vinosanto Affumicato dell’Alta Valle del Tevere?
È di fatto un vino «destinato all’uso interno aziendale», com’è scritto sull’etichetta, una produzione casalinga e amatoriale al di fuori di una distribuzione commerciale, di una denominazione di origine, di un territorio conosciuto. Lo porto a casa e lo assaggio. Ecco le note di quel giorno: «Mogano scuro con riflessi verdeggianti. Naso di torba e affumicature, salsa barbecue, tabacco dolce, spezie. Palato denso, consistente, viscoso da morire, di menta e tabacco, invitante, lunghissimo, concentrazione clamorosa, fico, sciroppo balsamico, gheriglio di noce, caramello. È oleoso, permeante, fumé, balsamico, coltre di zucchero, corroborante». Da dove è uscito questo portento?
Rileggo il nome del vino: Vinosanto Affumicato dell’Alta Valle del Tevere Cesare di Galparino 2008, prodotto da La Miniera di Galparino presso Vocabolo Galparino n. 35, Città di Castello. Chiamo il numero dell’azienda e parlo con Chiara Filippi. Mi racconta di sé, del suo lavoro, di suo padre, della tradizione del Vinosanto locale che sta cercando di recuperare. Mi manda via mail una brochure. Scopro che il vino è diventato presidio Slow Food. Non è in commercio, ma decido ugualmente di inserirlo nel libro: un vino del genere non può rimanere nell’anonimato. Poi, terminato il lavoro redazionale, vado a trovare Chiara nella sua Miniera durante le ferie d’agosto.
La campagna a sud di Città di Castello è un susseguirsi di campi di mais, tabacco, canapa, girasole. La vigna occupa uno spazio circoscritto. Qui, nella parte più settentrionale dell’Umbria, al confine con la Toscana (Sansepolcro è a pochi chilometri), l’agriturismo della Miniera di Galparino è immerso tra le morbide colline dell’Alta Valle del Tevere. Ricavato da un antico casale in pietra di origine medievale, deve il suo nome a una miniera di lignite del XIX secolo. È un luogo ampio, accogliente, rasserenante. Cinque camere dalla vecchia casa colonica; due appartamenti dai seccatoi del tabacco e due costruiti dove un tempo c’erano le vecchie stalle; una piscina; una cucina casalinga che riconcilia l’anima e il palato (d’estate si mangia in veranda). «Non sono una cuoca, ma una massaia. Ho sempre cucinato per divertimento senza basi culturali e tecniche. Cucino i prodotti che allevo, conservo e trasformo seguendo le stagioni, valorizzando presidi locali e italiani».
La padrona di casa di questo confortevole ambiente rurale, sempre indaffarata, è originaria di Città di Castello e dopo il liceo linguistico ha studiato scienze geologiche all’Università di Perugia. Ma il suo destino è un altro: ritornare nell’azienda di famiglia, iniziando a ristrutturarla. Nel 2000 apre con il marito Claudio Ceccarelli l’agriturismo, l’anno successivo viene acquistato il casolare che era in affitto. Iniziano la ricettività e la ristorazione, incrementano la superficie dei terreni coltivati, impiantando vigne e oliveti, creando la tartufaia. Oggi la Miniera è un’azienda agricola biologica di circa 50 ettari (25 a bosco, 25 a seminativi tra oliveti, tartufaia e vigneti).
Dopo la morte del padre Cesare, avvenuta nel 2003, Chiara comincia a produrre con il marito il Vinosanto Affumicato, recuperando una tradizione locale quasi dimenticata. Oggi la vigna supera di poco il mezzo ettaro, con 8000 metri quadrati di nuovi impianti. L’80% dell’uvaggio è composto da trebbiano, probabilmente toscano. «Forse c’è anche il dolciame o malfiore», mi racconta Claudio, «che è sempre un “trebbianoide” locale e che stiamo cercando di recuperare». Poi il san colombano o verdea, un altro trebbiano a grappolo spargolo. «Forse c’è anche l’uva delle vecchie, che assomiglia alla vernaccia. In più la malvasia di Candia, probabilmente quella non aromatica, e grechetto». Il 10% di questo articolato uvaggio è occupato da uve rosse: sangiovese e colorino. Qui la viticoltura è sempre stata una coltura marginale, con piante un tempo maritate ad aceri e olmi. Il terreno è composto da argille e ciottoli, il sottosuolo dai depositi fluviali del lago Tiberino, dal “macigno toscano” (pietra e arenaria), dalle argille.
«Era tutto tabacco anche in collina. Oggi si cerca una coltura alternativa. Qualcuno pensa ai noccioleti per la Ferrero. L’obiettivo è far ripartire la viticoltura con la fondazione di un consorzio e una modifica della Doc Colli Altotiberini per ottenere una specifica tipologia dedicata al Vinosanto Affumicato». La vendemmia si situa tra la fine di settembre e i primi di ottobre. Per l’appassimento delle uve si appendono i grappoli a coppiole ai ferri del solaio della vinsantaia, un’ex stalla. L’affumicatura è realizzata con una stufa economica alimentata con legna di quercia e altre essenze locali. La torchiatura si localizza tra febbraio e marzo, con fermentazione in acciaio per circa 15 giorni, separazione dalle fecce e immissione del vino in caratelli sigillati con garza di lino, tappo di sughero e ceralacca. Dopo la svinatura, non c’è il consueto taglio tra i pochi caratelli della cantina (la produzione è meno che confidenziale: circa un centinaio di mezze bottiglie all’anno, quando tutto va per il verso giusto). L’imbottigliamento avviene infatti per singolo caratello, fatto che genera bottiglie differenti tra loro.
Così il 2008 che assaggio quando visito la cantina è diverso da quello che avevo degustato per il libro. Colore mogano fulvo. Naso di croccante della fiera, zabaione, eucalipto. Palato di rilevante densità, ricco e concentrato, con alcol che scalda e finale complesso di zabaione, croccante, torrone, marron glacé. Un’altra bottiglia dello stesso millesimo, ma aperta da due giorni, sfoggia un registro olfattivo di notevole rilievo e carattere: noci, fichi, frutta secca, soffitte e granai, credenza della nonna. Il palato è denso, viscoso, oleoso, di grande razza e progressione, con stratificati sentori di caramello, fichi, noci, paniere di frutta secca. Magnificato da un côté balsamico che accende il palato, esibisce una chiusura di miele, eucalipto, propoli, accenni fumé. Dolcissimo, contrastatissimo, lunghissimo: i superlativi si sprecano.
In una delle sale arredate con mobili d’epoca, Chiara mi fa assaggiare un bicchiere da un magnum del Vinosanto Cesare di Galparino 1997, uno dei tre prodotti dal padre nell’anno di nascita della nipote Lucia (sul bordo dell’etichetta è scritto a mano “Riserva Lucia”) e rimasta stappata dal giorno del suo diciottesimo compleanno, il 7 febbraio 2015, dunque per più di tre anni. È una rivelazione sulle potenzialità d’invecchiamento di questo Vinosanto. Ha colore mogano scuro-marrone fitto e favoloso naso di noci, fichi, zabaione, uva sultanina. Palato denso denso, molto contrastato, con sensazioni di caramello, eucalipto, accensioni balsamiche, croccante della fiera. Fascinoso finale fumé, mai invasivo e lunghissimo. Pura, grande meditazione.
La dimensione di artigianalità, ruralità e longevità di questo vino generoso e complesso appare in tutta la sua evidenza e naïveté quando, su indicazione di Claudio, vado a trovare Enrico Nardoni a San Secondo. Ex dipendente in un mobilificio (per trent’anni ha fatto il caporeparto) diventato agricoltore, Nardoni ritiene che «è la madre che fa l’affumicatura anziché i fumi della stufa: ne metto un litro e mezzo per ogni caratello». Fa appassire le uve sottotetto, torchiandole a dicembre e immettendo il vino in caratelli di età variabile dai 5 ai 70 anni. Non li sigilla e dopo il primo anno effettua un travaso in altri caratelli, svinandoli definitivamente dopo un minimo di quattro anni. Conserva il Vinosanto per un mese in damigiane riempite durante la luna calante prima di metterlo in bottiglie riutilizzate di Sangiovese di Romagna, di spumante, di grappa.
Il metodo produttivo differisce in più punti da quello della Miniera di Galparino, ma le rese sono altrettanto esigue (da 50 litri di mosto se ne ricavano 12 di Vin Santo) e l’imbottigliamento procede analogamente per caratello singolo. Siamo nel salotto d’antan di una casa di campagna e Nardoni tira fuori alcune bottiglie dalla parte bassa di una credenza. Sono aperte da tempo. Mi legge le annate scritte a mano e mi fa assaggiare:
– un 2012 denso denso e molto zuccherino, che sa di croccante della fiera e ginepro;
– un 2010 dalle note balsamiche e mentolate, di concentrazione sciropposa e discreto contrasto;
– un 2008 (contenuto in un doppio magnum) dal colore marrone scuro e dalle note di caramello, incenso, affumicatura, fico secco, con bocca ricca, oleosa, persistente;
– un 2005 dal colore marrone chiaro, con purezza di fico imbottito al naso, con densità e slancio al palato, che si allunga imperioso e persistente su note di zabaione e caramello al sale, di notevole espressione;
– un 2000 marroncino un po’ velato dal fondo, fresco-balsamico ai profumi, con sentori di miele e propoli, bel contrasto al palato, invitante e persistente, fresco e balsamico, con ritorno quasi di albicocca secca:
– un 1997, infine, preso da un magnum di forma renana, con tanti elementi terziari all’olfatto (fico, noce, paniere di frutta secca), più secco e alcolico al palato, ma ugualmente persistente, con finale di gheriglio di noce.
«Non ho mai venduto una bottiglia», mi dice Nardoni. «Le ho sempre barattate con conigli e altre bottiglie di vino». È stato questo finora lo spirito che ha accompagnato la produzione domestica e occasionale del Vinosanto Affumicato dell’Alta Valle del Tevere.
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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).
Una risposta
Grazie. Quando ho letto il suo articolo mi sono emozionato. Conosco bene i luoghi, le persone e il Mondo che ha raccontato ed io che li vivo non avrei potuto farlo meglio. Ha compreso alla perfezione l’anima delle persone che hanno portato avanti questo progetto.