Nelle mie ultime stagioni enoiche una delle cose che ho imparato – o forse dovrei dire reimparato, perché non avrei dovuto mai dimenticarla-, è che la nostra concezione dei vini campani è piuttosto riduttiva. Per chi non risiede in loco, l’idea dei prodotti regionali spesso si limita alla nobile statura tannica dei Taurasi, vini tanto potenzialmente longevi quanto alle volte un po’ rustici, e alle vibranti acidità dei gemelli diversi Fiano di Avellino e Greco di Tufo, con tutti questi vini che quasi sempre vengono bevuti o degustati in piena gioventù, senza che sia stata loro concessa l’opportunità di “sprigionare” tutto il potenziale. Questo è, con la parziale eccezione di qualche Falanghina ridotta al mero ruolo di semplice vettore di frutto. Ma in realtà c’è molto altro.
La cosa mi è apparsa in tutta la sua evidenza nel breve viaggio compiuto qualche mese fa nel Sannio. In effetti la provincia di Benevento, con distacco, è quella che produce più vino in tutta la Campania (il 65% di quello a DOP), e il paesaggio agricolo è fortemente caratterizzato dalla coltivazione della vite, non appena si abbandona l‘hinterland napoletano con la sua lunga teoria di centri commerciali e fabbrichette. Il panorama si fa sempre più verde, i campi ordinati rispecchiano cura per il lato estetico e orgoglio per il proprio lavoro di contadini. E’ una vallata ampia, contornata da colline anche ripide dove talvolta le vigne vi si arrampicano a balze, con sullo sfondo le vette dell’Appennino.
Da quei belvedere, da cui si gode una visuale più aperta, si accompagnano ai picchi irpini e, dalla parte opposta, in lontananza, al profilo del Vesuvio. E non si fa fatica ad intuire come in questi luoghi la produzione possa giovarsi di una consistente ventilazione e di un benefico gradiente termico giorno-notte, a tutto beneficio della maturità delle bucce, con tutto ciò che ne consegue. E non è un caso che l’enologo dell’azienda che siamo venuti a visitare sostenga che il Sannio abbia una vocazione green.
Muovendoci verso il piccolo borgo di Torrecuso ci troviamo nel centro di una denominazione che una volta era frammentata in più entità (e disciplinari), giustificate più dall’orgoglio di campanile che non dalle effettive differenze organolettiche dei prodotti che ne derivavano. Adesso, per fortuna del mercato e di chi si confronta con questi vini, esiste una singola DOP Sannio, e le precedenti “schegge” hanno conservato il loro spirito identitario con il rango di sottozone.
In termini di varietà, per i bianchi questo è il regno indiscusso della Falanghina nella sua accezione più materica, senza che per questo le venga meno l’acidità; mentre la presenza di Fiano, Greco e Coda di Volpe è residuale.
Tra i rossi, il genius loci risiede nella nobiltà dell’Aglianico, che si aggiudica le cuvée con maggiori ambizioni di longevità, svettando sul massiccio del Taburno, ove gli è riconosciuto il rango di DOCG (anche alla versione in Rosato). Gli fa eco la ruspante immediatezza fruttata del Piedirosso, oltre ad alcune cultivar locali su cui avremo modo di ritornare. Fatto sta che la fama di questo comprensorio non è pari ai suoi numeri produttivi. Eppure il territorio è vocato, la tradizione millenaria, i vitigni di conclamato interesse. Hai visto mai che i viticoltori del Sannio debbano ancora decidere cosa vogliono fare da grandi?
Il disciplinare della DOP di certo non aiuta, contemplando qualsivoglia tipologia di vini fermi e spumanti (anche il Novello!), inclusi ovviamente i Rosati, ottenibili con qualunque vitigno chicchessia abbia solo sognato di poter coltivare nell’areale beneventano. Con rese per ettaro relativamente allegre, per fortuna spicca l’assenza dei vitigni internazionali, a conferma dell’avvedutezza della decisione pionieristica presa a suo tempo da alcune grandi aziende campane (Mastroberardino in primis), di puntare sulla valorizzazione dei propri gioielli di famiglia piuttosto che ricorrere al Cabernet o allo Chardonnay, con conseguente rischio di omologazione stilistico-gustativa.
A tutto questo pensavo, godendomi gli sprazzi di sole di una bigia giornata settembrina, mentre il bus ci conduceva non alla programmata degustazione su battello in navigazione nel golfo di Napoli (maledetto allarme meteo!), bensì direttamente alla Agricola La Fortezza di Torrecuso, che intendeva presentarci la sua nuova linea Premium.
Enzo Rillo è un local che ha fatto fortuna con un’impresa che produce materiali per costruzioni stradali (che rimane il suo business principale) e ha reinvestito i profitti nella terra natìa, delegando la gestione aziendale alla moglie Daniela Di Maria. Adesso l’azienda può contare su oltre 60 ettari vitati disposti fra i 350 e i 550 mt s.l.m. lavorati con protocolli sostenibili e rispettosi della biodiversità, le cui uve arrivano in cantina in cassette di max 7-10 Kg.
L’idea è quella di alzare l’asticella, emendando il comprensorio dalla fama di produttore di masse di vino gradevole ma corrente, per creare qualcosa che proprio in ragione di una migliore qualità possa dirsi pienamente territoriale. Il che ovviamente passa dall’utilizzo esclusivo di vitigni autoctoni.
Quattro vini, quattro scommesse. Il DonnaDaniela 2020 è un bianco fermo costituito da uve aglianico vinificate in bianco, fiano e piccolo saldo di falanghina. L’uva va in pressa non diraspata e fermenta a bassa temperature, a non più di 15°C, con basso contenuto di solforosa libera. Ciò non nuoce all’integrità dei profumi di zagara, frutto tropicale (mango), sapone di Marsiglia, più un cenno balsamico e minerale. Al palato l’acidità appare ben integrata nel non indifferente volume, l’attacco di bocca esprime nuovamente frutto, il sorso è largo e maturo, discreta è la sapidità; a penalizzarlo, semmai, una spiccata sensazione amaricante sul finale.
Il Tremièn (dal verbo tramiè, ascoltare) è un Metodo Classico pas dosé a base aglianico (vinificato in bianco), fiano e falanghina che ha trascorso 18 mesi sui lieviti ed era stato sboccato 6 mesi prima del nostro assaggio. Ha una bolla fine alla vista, e tale si confermerà; sciorina un naso scoppiettante di più sentori che arrivano in sequenza, anche se con media intensità: si va dai riconoscimenti di burro di arachidi e di nocciola alla fragranza del giglio e del biancospino, fino a un tono vegetale rinfrescante. Il palato è accarezzato da una piacevole acidità che titilla le mucose con una mousse vellutata, si allarga bene su riconoscimenti di agrumi maturi (mandarino) e ritorni floreali e vegetali, risultando magnificamente equilibrato ed elegante, anche se difetta di articolazione aromatica ai profumi. La singolarità dei descrittori è peraltro segno positivo dell’espressività dei vitigni autoctoni nella spumantizzazione.
L’Ussiè (il nome discende da un altro termine dialettale che sta per “sentire”) è un altro Metodo Classico pas dosé con uvaggio di aglianico (ancora in bianco) e fiano: dovrebbe essere un Rosé, ma in queste prime prove di spumantizzazione il colore è precipitato e si presenta come un vin gris (N.B.: con la bellezza di 7 atmosfere 7 di sovrapressione!!). Le bollicine sono visivamente più grandi che nell’assaggio precedente, anche se, rimanendo il vino nel bicchiere, è come se divenissero più fini (un poco capita sempre, ma stavolta in maggior misura). Il naso, di media apertura, oscilla tra piccoli frutti rossi (fragoline di bosco, ribes) e fiori bianchi, poi sopraggiunge di nuovo una nuance di sapone di Marsiglia, quello che una volta si chiamava “linimento”. Il sorso ha volume, ma in ispecie si caratterizza per un gran “calcio” di acidità, e la mousse, più che pizzicare, un poco gratta. Aromaticamente la bocca è ancora avara di frutto, salvo nel finale (con qualche richiamo vegetale), ma non gli fa difetto la sapidità. Trattasi di vino ambizioso, strutturato e discretamente profondo, cui necessita un più lungo riposo in bottiglia per dare conto della sua indubbia personalità.
E dulcis in fundo, a pomeriggio inoltrato, e per fortuna con l’accompagnamento di qualche sfizio gastronomico, finalmente l’Aglianico nella sua declinazione in rosso. Nel Bareglià 2020 ( l’etimo intende rammentare in simpatica crasi la presenza di barbera ed aglianico nell’uvaggio) è accompagnato dall’immediatezza fruttata del piedirosso e da un saldo di camaiola, cultivar locale qui però proveniente dalla vendemmia 2018. Trattasi di vitigno quanto mai caratterizzato e aromaticamente “divertente”: al naso somiglia a una Lacrima di Morro, al palato a un Ruché! Con italica confusione viene spesso indicato come Barbera del Sannio, ma studi ampelografici hanno dimostrato come non vi sia nessuna connessione con la Barbera piemontese (N.B.: esiste anche una Barbera Sarda…).
Il vino si propone con un tono luminoso di bella gioventù. L’olfatto sulle prime è introverso, poi si dipana sulla speziatura pepata e varietale dell’Aglianico, su riconoscimenti balsamici, di frutta rossa fragrante, ma anche di cacao e di mora in confettura, con un legno magnificamente digerito. Il clone di Aglianico di zona è meno austero di quello irpino, e qui dispiega tutta la sua estroversione aromatica, in concorso con gli altri componenti del convincente uvaggio. Il palato (15° alcolici portati bene) è saporito, profondo, di bella presa tannica ma anche avvolgente, largo nell’impatto fruttato, con un ritorno finale di olive in salamoia che rimanda a numerose splendide esperienze con il vitigno principe della Campania. In sintesi, un vino sontuoso e una bellissima sorpresa.
Le etichette della linea Premium riportano delle brevi poesie di Enzo Rillo, palesemente ispirate, nella loro tenera naiveté, dall’amore per la propria terra. Sono versi che parlano di un sogno che un grande impegno organizzativo sta trasformando in realtà. Già esiste una tenuta moderna, adatta alla ricezione di grandi gruppi e all’organizzazione di cerimonie, sfruttando la posizione panoramica a volo d’uccello con vista estesa su un ordinato panorama verde e collinare e con tanto di quinta di montagne a sfondo. Ma non è questo ciò che conta, e tutto sommato nemmeno la solida gamma di etichette varietali che abbiamo avuto occasione di degustare durante una lauta cena che ci ha ripagato della mancata escursione in battello. Vini ben fatti, gradevoli, immediati, ciò che ci si aspetta legittimamente dal Sannio e che purtroppo non sempre si ritrova.
Ma qui c’è la volontà e la consapevolezza di andare oltre, di insignire la terra avìta di uno status enoico che ad oggi nessuno gli riconosce, tramite l’entusiasmo che è poi lo stesso del Sindaco di Torrecuso, quando ci ha ricevuti nel grazioso Palazzo Comunale; un entusiasmo che funge da motore per osare, programmare, investire. Perché il Sannio regali vini più grandi. Allora i prezzi importanti non spaventeranno più nessuno, come già avviene nei mercati ove La Fortezza è riuscita a penetrare, tra cui la Cina (l’esclusività paga!). Così i clienti internazionali si contenderanno le 5.000 bottiglie prodotte per ciascuna etichetta, e non mancheranno le occasioni di rinnovate poesie.
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Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa.
Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana.
Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.