“Santi e bevitori”, un viaggio nel nostro rapporto con l’alcol

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“Oggi l’alcolismo è classificato come una «malattia». Come il cancro o la rabbia. […] Al di là dei danni al fegato, ci sono aspetti di questa malattia che le statistiche della medicina non potranno mai mettere in luce. C’è il desiderio di convivialità, di rompere una solitudine altrimenti difficile da evitare. Il trascendere sé stessi. C’è l’infelicità che nasce dall’ordinario, dalla vita normale, che dopotutto – e senza esagerazioni – porta alla vecchiaia e alla morte. Dunque distaccarsi da sé stessi è non solo comprensibile, ma anche semplice, come lasciare a terra una maschera inutile e andarsene via

 Quando si parla di alcol ci si trova stretti fra due correnti di pensiero: secondo la prima è una sostanza in assoluto negativa per il nostro corpo, che genera danni e malattie; per la seconda (che magari non nega l’altra ma equipara i rischi descritti a quelli di finire all’altro mondo per colpa di un guidatore distratto) esso ci libera dalle inibizioni, rendendoci più autentici, sinceri e in definitiva più felici. In un bel film danese, “Un altro giro”, si racconta la storia di un gruppo di amici che decidono di verificare sul campo la teoria dello psichiatra norvegese Finn Skårderud secondo la quale l’uomo soffre di un deficit di alcol senza il quale sarebbe più felice, più efficiente sul lavoro, migliore nelle relazioni sociali e sentimentali. Insomma, viene da chiedersi, dove sta la verità? In una realtà oggettiva vissuta e analizzata con strumenti cartesiani, e alterata magari quando ne abbiamo voglia con qualche bicchiere, o è magari quella che riusciamo a scorgere solo quando siamo alterati, e in preda a queste alterazioni riusciamo a fare scelte, o a dire cose che non faremmo o diremmo nell’equilibrio apollineo della sobrietà?

Questo libro è un viaggio a tratti ironico e a tratti dolente del rapporto dell’uomo con l’alcol, descritto da uno scrittore appartenente ad una civiltà, quella anglosassone, in cui si ha il bisogno talvolta insopprimibile di annullare la propria coscienza e in cui si guarda con una punta di invidia noi “latini” che invece l’alcol in genere abbiamo la forza di gestirlo. Al punto che “nessuno urla, nessuno se la fa addosso. Lo sappiamo tutti: gli italiani bevono così. Gli uomini si accomodano di fronte alle donne e parlano, i decibel proporzionali all’interesse sessuale.” O anche, citando Roland Barthes, “in altri Paesi si beve per ubriacarsi e tutti lo dicono apertamente; in Francia l’ubriachezza è una conseguenza, mai un’intenzione. Un bicchiere è percepito come il dispiegarsi di un piacere, non come la causa necessaria di un effetto desiderato: il vino non è solo un filtro, è anche atto durevole del bere. Lo stesso si può dire degli italiani.”

Così talvolta l’alcol è la consolazione di una inadeguatezza esistenziale profonda e irrecuperabile, che neanche una brillante carriera o la celebrità possono rimuovere. Come accade al suocero dell’autore, violinista e direttore d’orchestra passato per i teatri più prestigiosi che ebbe in sorte una triste morte per cirrosi epatica. E come dimostrano le confessioni autobiografiche a tratti crude e quasi commoventi di una vita di alti e bassi dell’autore, ora scrittore di successo ma un tempo giovane indigente talvolta senza nemmeno i soldi per un cartone di uova e che completamene inselvatichito finisce per rubare tacchini surgelati e bottiglie di Borgogna dalla cantina di un architetto che lo aveva accolto e sfamato. Con una toccante e ispirata descrizione del bar della sua gioventù, un “piccolo, indispensabile angolo d’inferno” intitolato ad una certa Pilar Montero, ballerina di flamenco, costantemente popolato di derelitti che passano la loro giornata con l’unica compagnia di un bicchiere “ruminando boli e seguendo immutabili partite di baseball dietro occhiali riparati col nastro adesivo”. Questo a New York, una delle città più ricche del mondo.

Un libro spesso on the road, in cui i viaggi del giornalista per visitare produttori artigianali di Vodka gelosi delle proprie patate da cui ottengono bottiglie affascinanti o le piccole isole “cult” sedi delle migliori torbe da whisky, comprendono anche peregrinazioni alla ricerca disperata di luoghi in cui oltre a succhi di frutta dolciastri e intrugli vari si possa trovare un pur scadente gin tonic, e avventure alla ricerca di drink in bar squallidi e clandestini con tavoli appiccicosi e cameriere stanche, nascosti in vicoli illuminati da luci fioche fra Thailandia e Malesia, fra Istanbul e Islamabad. Il confronto fra il bevitore occidentale e il mondo musulmano è difficile e ostico, ed è riassunto in un dialogo occasionale con dei giovani severi che condannano senza appello il bere come “malattia dell’anima” e l’alcol che “altera il normale stato di coscienza, falsando ogni rapporto umano, ogni momento di consapevolezza. Falsando anche il rapporto con Dio”. Ed è rappresentato dal contrasto violento fra chi decide consapevolmente di crollare riverso completamente ubriaco in un bar e chi lo osserva da tavoli popolati esclusivamente di bottiglie di Perrier.

Esistono poi le frontiere fra zone cristiane, islamiche e buddiste, fonti di ricchi business a causa di passaggi incontrollabili dovuti a pulsioni pericolose ma irrefrenabili.  Ed esistono le eccezioni: in Libano si trovano valenti viticoltori che però avvertono il fiato sul collo degli hezbollah e sentono che le proprie cantine hanno il destino segnato, come lo sentono i due intraprendenti produttori di vino sempre libanesi ma con vigneti in Egitto. Il centro de Il Cairo, sempre più consumato e cadente,  è il simbolo di un irrimediabile passaggio dallo splendore di una civiltà laica al dominio della religione. Il termine in qualche modo di un percorso iniziato con il Concilio quinisesto di Giustiniano del 692, in cui per avvicinarsi alla severità di un islam in espansione vennero abolite le pratiche più gioiose del culto di Dioniso “luce dell’estate”.

Il divertente racconto di un capodanno festeggiato a Mascate, in Oman, insieme a una bella e agitata fidanzata italiana che minaccia la rottura in assenza di Champagne e che a mezzanotte finisce per trangugiare succo d’anguria è l’occasione per un’analisi coinvolgente dell’influenza dell’alcol sul rapporto di coppia, partendo dal presupposto che “l’alcol è un mezzo per indurre stati d’animo manifesti”, e senza di esso ci si può sentire “scarni, sinceri, troppo esposti”. Del resto l’alcol, dopo la cocaina, è il più potente stimolatore dei recettori della dopamina, che è associata al piacere e che in qualche modo ci fa gioire di essere vivi.

E così, alla fine della lettura il dubbio resta: “l’alcol fa la maschera o strappa la maschera”?

Lawrence Osborne
Santi e bevitori – Un viaggio alcolico in terre astemie
Treduzione di Mariagrazia Gini
Ed. Adelphi
pagg. 202 – 2024
18 euro

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