Il ciclo del carbonio è una delle combinazioni tra energia e materia alla base della vita. L’evoluzione vegetale del pianeta terra, resa possibile da meccanismi batterici sempre più complessi, ha permesso la costruzione di tutte le catene biologiche attraverso il lavoro di organismi bisognosi di ossigeno. Le prime piante colonizzatrici del pianeta furono felci, equiseti e gimnosperme (conifere) la cui decomposizione formò in periodi lunghissimi le fonti di energia non rinnovabili, come petrolio e carbone, che oggi condizionano la vita umana.
“Nel suolo delle grandi foreste di equiseti del carbonifero, non vi erano né lombrichi, né acari, né collemboli. Tale assenza di fauna, dovuta alla tossicità della lettiera, faceva sì che quest’ultima si decomponesse con grande lentezza. Il ruolo della fauna è quello di frantumare i resti vegetali riducendoli a elementi minutissimi attaccabili dai microbi. Se tale frantumazione non avviene, i microbi impiegheranno anni per attaccare i grossi resti delle piante rimaste intatte… Questo scarto tra il deposito delle lettiere e la loro decomposizione sta all’origine delle miniere di carbone e dei giacimenti di petrolio”. Ecco come Claude e Lydia Bourguignon, agronomi francesi, nel loro libro Il Suolo un patrimonio da salvare (Slow Food Editore, 2010), descrivono la formazione di quel materiale inerte che sono i giacimenti di carbone e petrolio. La dispensa di energia ha permesso la grande abbuffata dell’umanità, la quale, dalla rivoluzione industriale alle grandi scoperte sulla chimica organica, ha scelto di allearsi con il petrolio anziché con il sole.
Non tutta questa lettiera si è trasformata in oro nero. Nel processo millenario qualcosa è rimasto indietro, un elemento scuro, umido a metà tra la vita e la morte: la torba (peat in inglese). Tale miscuglio di piante e carcasse di animali decomposti, intriso d’acqua, al quale l’acidità dell’ambiente non ha permesso di completare il suo ciclo, ha avuto nella storia contemporanea plurime destinazioni tra cui quella di concorrere, attraverso la combustione, alla realizzazione di uno stile di whisky affumicato e caratteristico che ha conquistato il mondo degli appassionati.
Il calore derivato dalla bruciatura della torba serve ad essiccare l’orzo dopo la germinazione, il fumo denso impregna delle proprie essenze il chicco maltato fissando un corredo aromatico molto caratteristico, affumicato e iodato, che accompagnerà per il resto del viaggio il cereale fino allo spirito in bottiglia. Non è un caso che proprio la remota isola di Islay, nell’arcipelago delle Ebridi interne, sia stata la culla di questo stile. La sua posizione, lontana dagli esattori delle tasse scozzesi, la sua origine geologica, fertile all’interno e con copiose torbiere vicino al mare, e la disponibilità di acqua purissima, furono le condizioni ineludibili per produrre malti dal carattere unico.
Come riporta Charles MacLean, grande esperto di whisky e autore di numerosi manuali sull’argomento, nella sua guida Miscellany of Whisky (Little Books LTD 2015), la torba non ha caratteristiche omogenee, laa sua struttura ha diverse peculiarità. La parte superiore, quella più esposta all’aria, ha consistenza friabile, terrosa e affumicata. Questa è la parte più ambita dai maltatori (i mastri addetti all’affumicatura dell’orzo). In profondità la torba è più scura e brucia a una temperatura più alta. L’ultimo strato è secco e nero, ricorda il carbone.
Peated, ossia di torba, si chiama la generazione di whisky affumicati e salini che rappresenta un mondo a parte nell’universo degli spiriti, un mondo tutto da scoprire. Per questo quando ho intercettato una degustazione organizzata dal team del Milano Whisky Festival insieme ai ragazzi del sito WhiskyFacile (www.whiskyfacile.it) dal titolo The peat experience, rigorosamente a casa e in diretta on line, ho aderito con trasporto. Un’iniziativa lodevole nell’ambito del mantra #iorestoacasa che ha permesso di passare un paio di ore, dalle 21 in poi, didattiche e divertenti.
Ecco la selezione:
Glen Moray Peated Single Malt 40 % Vol.
Distilleria dello Speyside, nord della Scozia. La distilleria produce circa 5.000.000 di litri di cui una piccola quantità, circa 300.000 litri, viene ottenuta attraverso l’impiego, nel processo produttivo, di torba; fattore, questo, non scontato per la regione. Circa il 50% della produzione diventerà single malt, il resto saranno basi per whisky blend. Un aspetto interessante è la gradazione alcolica: il volume alcolico del 40% è la gradazione minima legale per i single malt. Non riporta l’età: ciò è ammesso ma è obbligatorio rispettare il disciplinare di produzione che prevede 3 anni e un giorno di invecchiamento dello spirito.
Note di assaggio:
Al limite della diluizione, rivela una gradevole traccia sapida. Poco complesso, con note di erica e lieve affumicatura. Si perde troppo presto lasciando soddisfatti a metà.
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Caol Ila Distillers Edition (2006/2018) 43% Vol.
Eccoci arrivati sull’isola di Islay (si pronuncia Aila), ovvero il luogo eletto per tutti gli appassionati di whisky torbati. Caol Ila occupa il versante settentrionale dell’isola e rappresenta la distilleria più grande con i suoi circa 6.000.000 di litri prodotti. Secondo quanto riporta il sito whiskyitaly.it, solo il 5% del totale viene destinato a single malt, il resto è destinato ai blend del gruppo multinazionale Diageo, di cui la distilleria fa parte. Il whisky nel bicchiere, distillato nel 2006 e imbottigliato nel 2018, ha avuto un passaggio finale (finish in gergo tecnico) in botti di vino Moscatel (200gr/l di zucchero).
Note di assaggio:
La concentrazione sapida impressiona e rimanda a splendidi aromi agrumati e marini, classici per questo spirito. Non convince la chiusura troppo amara, che cozza contro la tendenza dolce (marzapane) del centro bocca. Alcol poco integrato.
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Lagavulin Distillers Edition Double Matured (2001/2017) 43% Vol.
Altra icona di Islay, stavolta situata nella parte meridionale dell’isola, vicino a Port Ellen; nome di riferimento per gli appassionati degli spiriti. La distilleria è tra le più conosciute al mondo per l’estrema identità torbata dei suoi malti. Anche la storia è dalla sua, basti pensare che su queste coste remote il nome Lagavulin fu utilizzato a partire dal 1836. Il Distillers Edition in questione si caratterizza per l’ulteriore maturazione in botti di Sherry Pedro Ximenez.
Note di assaggio:
Potente, concentrato e consistente. Questo pachiderma alcolico conserva una inaspettata eleganza grazie una trama di sale intrigante che lo salva da una banale opulenza dinamica, ma non può esimerlo dalla critica sull’artificiosità della tendenza dolce, a tratti stucchevole.
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Kilchoman Loch Gorm (2009/2014) 46% Vol.
L’ultima arrivata su Islay e la prima a essere costruita dopo 124 anni di stallo; stiamo parlando del 2005. Ha il pregio di aver colto il consenso contemporaneo verso la filiera corta: l’orzo è coltivato sull’isola e maltato dalla stessa azienda. Una produzione artigianale insomma, che si apprezza anche per una certa sottrazione della materia e una conseguente rarefazione delle sensazioni gustative, evocate sottovoce dall’infinito ricamo dei dettagli. Far coincidere nell’armonia la densa violenza torbata e la finezza dell’ampiezza aromatica è uno dei maggiori pregi di questo spirito. Il campione in questione è una bottiglia particolare che matura in botti di Sherry Oloroso dell’azienda Miguel Martin, distillato nel 2009 e imbottigliato nel 2014.
Note di assaggio:
Il più reticente a farsi apprezzare, ma l’attesa vale la pena. Secco l’impatto per un liquido che non vuole compromessi. Rigido e salato, quasi spigoloso, inizia lentamente a rilasciare aromi sulfurei, cerino appena spento, e balsamici. Poi regala un sentore meraviglioso: conchiglia su spiaggia assolata, cenni di alga bagnata e frutta rossa a profusione. L’iniziale rigore evolve in una traccia materica dritta, piena di sale e di sapore. Devo dire proprio nelle mie corde gustative.
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The Glenlivet Nadurra Peated Whisky Cask Finish 61,8%
Si torna a Speyside per l’ultimo assaggio. The Glenlivet è una delle realtà che hanno influenzato la storia del whisky. Apprendo da diversi siti di riferimento che “la data di fondazione del 1824 ha una importanza storica: prima licenza rilasciata dopo il famoso intervento del duca di Gordon per favorire la distillazione legale” (fonte whiskyclub.it). Sicuramente la produzione, che conta su più di 10.000.000 di litri , non è famosa per il torbato. Anche questo No Age è una specie di trucco dato che non vi è stato un concreto uso di torba nella produzione ma un passaggio in botti dove era stato maturato precedentemente un heavy peated single malt, vale dire un whisky molto torbato.
Note di assaggio:
La gradazione piena, in questo caso, non aiuta l’assaggio. L’alcol è caustico e sembra un liquido scombinato; dalla chat dicono che con l’acqua migliora sensibilmente. Avverto frutta semplice come pera o susina bianca. Mi ricorda l’amata țuică rumena e so che non è un complimento per l’ambizione di questo spirito. Il frutto si schiarisce leggermente con l’ossigeno ma rimane semplice all’olfatto e grezzo al palato.
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La mattina dopo
Sono andato a letto lasciando bicchieri e campioni aperti sulla scrivania. Mi sveglio in forma e, appena entrato nello studio, vengo accolto da un abbraccio odoroso straniante; mi sembra di essere su una spiaggia fra profumi di elicriso, sabbia calda e dolcezza frammista di vaniglia. Infilo di nuovo il naso in ogni bicchiere e leggo le note di degustazione: tutto confermato. E il quarto bicchiere, rispetto agli altri, ha l’effetto di quelle conchiglie che avvicini all’orecchio per sentire vicino il mare.
Vive sulle colline lucchesi. È uno dei principali collaboratori di Slow Wine, la guida annuale del vino pubblicata da Slow Food Editore. Si occupa da circa quindici anni di vino e cultura cercando di intrecciare il lavoro alcolico con quello narrativo.