I quattro quinti a Barbaresco

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Una piacevole sorpresa settimane fa nella vecchia cantina, che non è una sterminata distesa di vini ma solo uno spazio piccolo e abbastanza caotico: ben quindici bottiglie di Barbaresco Produttori del Barbaresco, di annate tra il 1999 e il 2001. Giacevano nascoste da alcune casse di legno (alcune piene, altre inutilmente e molestamente vuote). Nel gruppetto, molti cru diversi, da Asili a Pora, da Ovello a Rabajà. Di quest’ultimo ho trovato ben due 2001, un rosso al quale in epoca espressica tributammo grandi lodi: “Complesso e molto elegante all’olfatto, ha gusto slanciato, pieno di succo, con finale elegantissimo, di cristallina purezza”.

Trascinati dall’entusiasmo, nella scheda introduttiva – che sono andato a rileggermi – scrivemmo: “se dovessimo indicare un modello ideale di cantina cooperativa quella dei Produttori di Barbaresco si avvicinerebbe molto alla perfezione”. E sì che la competizione nella tipologia era ad altissimo livello: Bruno Giacosa, Castello di Neive, Roagna, Cisa Asinari, Giuseppe Cortese, per citare i capofila in fatto di qualità e di fedeltà stilistica alla tipologia.

Con queste salivanti premesse, ho stappato il Rabajà 2001, trovandolo dopo un ventennio di sviluppo nel vetro un po’ più scuro e baritonale della silhouette giovanile. E ci sta, dato il carattere assertivo che la letteratura classica attribuisce al cru. La forza motrice, al netto della tenace presa tannica, è rimasta tuttavia notevole, mentre il bouquet si è arricchito di classiche sfumature autunnali e tartufate.
Un bellissimo vino, dal finale nettamente sapido. Nessuna scodata troppo alcolica, nessun timbro bruciante. Anzi, dietro il corteo tannico/salino, un lieve sbuffo di freschezza acida.

Per contrasto ho bevuto recentemente un Barbaresco del 2018 che dichiarava in etichetta 16 gradi alcolici. Lo scrivo senza alcuna laudatio temporis acti, ma soltanto esponendo il crudo dato analitico. 16 gradi vuol dire in sostanza 16 gradi e mezzo, dato che la legge italica permette di indicare mezzo grado in meno. E difatti il vino risultava una specie di distillato, irrobustito da potenti correnti tanniche e – ma qui non rileva – da sentori boisé non certo timidi. Non indico il produttore perché non si tratta qui di criticare il singolo, piuttosto si tratta di constatare un’evidenza: nella mia esperienza di bevitore l’architettura di un vino sopporta un certo grado di tensione strutturale indotta dall’alcol, oltre il quale l’intero edificio collassa.

Tocca fare la solita precisazione, per evitare le incursioni dei puntualizzatori seriali. Va bene, va bene, detto e stradetto, il dato analitico di per sé non vuol dire nulla. Ottimi vini con 14,5 gradi risultano equilibrati e gustosi, vini mediocri risultano pesanti e statici con “soli” 13 gradi. Però esiste un limite.

Ribadisco: nella mia esperienza di bevitore l’architettura di un vino sopporta un certo grado di tensione strutturale indotta dall’alcol, oltre il quale l’intero edificio collassa. Anche vinificato impeccabilmente, un rosso può conservare piacevoli i quattro quinti della sua corsa gustativa, ma il quinto finale ne deforma gravemente i lineamenti, se l’alcol è eccessivo.
Leggo che i vini dealcolati stanno acquistando crescenti quote di mercato, pur rimanendo una minima percentuale sul totale. Ma un vino privo di alcol, o un vino che è stato privato di una quota del suo contenuto alcolico, non è più un vero vino, non è più il vino che era alla nascita.
Quindi come se ne esce? ai vignaioli e ai produttori – degli anni 10, 20, 30 e oltre – la soluzione del rebus.

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