Il vino è bevanda arcaica, e un bianco sfolgorante

Tempo di lettura: 3 minuti

“A che vale essere vecchi, se non si può polemizzare con il presente?”

(Enrico Albertosi)

La cacofonia universale dei social, e più in generale la bulimia di pseudo-comunicazioni attuali (fatte al 99,7% da scambi di immagini e video, con il linguaggio delle parole ridotto a rametti rachitici senza vita) si fonda sul desiderio ossessivo di novità.

I cronisti del vino smaniano alla ricerca del “vino nuovo”, dei “fenomeni nuovi nel vino”, delle “nuove tendenze nel vino”. Per i pasti principali si accontentano di ciò che detta la moda mainstream, ma la vera caccia è a scoprire e individuare quello che accade sottotraccia, nel mondo underground delle “vere” manifestazioni del libero arbitrio vinicolo mai viste prima: enoalterati che si riuniscono in un pianoro appenninico alle tre di notte, o che invitano il vignaiolo iperbiodinamico della più ignota enclave francese a parlare dei suoi vini in un monastero, o che si scambiano tatuaggi maori mentre sorseggiano soft drinks/tisane blend di Pinot Nero e fiori di artemisia.

Negli spiriti curiosi, e solo curiosi, ciò non presta il fianco ad alcuna critica di rilievo. Sono gente curiosa, e solo curiosa. Però una fetta significativa degli enofili e dei giornalisti animati da quest’ansia rivela – nemmeno tanto in filigrana – una versione 5.0 del vecchio enosnobismo. L’enosnobismo storico degli anglossassoni, dei sommelier bi e tristellati, dei collezionisti compulsivi, dei mezzi/esperti e perciò stesso mezzi/incompetenti.

Nel suo “The Art of Wine Snobbery” il comico Dave Barry scriveva profeticamente già una ventina d’anni fa circa: “Alcune persone credono che il vino sia ancora fatto da contadini che schiacciano i grappoli a piedi nudi, lasciando pezzi di unghie e altri disgustosi residui nel vino. Questo è ovviamente un nonsense. I winemakers di oggi schiacciano i grappoli con macchinari moderni e igienici, e aggiungono disgustosi residui in seguito.”

Anticipando sarcasticamente le tecniche che alcuni tra i più furbeschi produttori fintamente vinnaturisti hanno adottato davvero per accalappiare i gonzi di turno, quelli che devono bere il liquido che è più cool, che devono intercettare i nuovi trend e sentirsi all’avanguardia, mica confondersi con il popolo bue che si beve il Gewürztraminer.

L’enosnobismo, di vecchia data o in versione anni Duemilaventi, non si rassegna ad accettare la realtà così com’è: il vino era e rimane una bevanda arcaica, per sua intima natura refrattaria alle mode. Una pietra angolare somiglia a tutte le altre pietre angolari, che abbia 4.000 anni o quattro settimane. Vuoi dipingerla di giallo? accomodati.
Questo non cambierà la sua essenza.

Nonostante la stabilità senza tempo del vino, lo snobismo che lo affligge è tra i peggiori e più renitenti a una cura di sano francescanesimo. Non è un caso che gli enosnob vincano regolarmente l’annuale premio Golden Haughtiness (“Spocchia d’Oro”) assegnato dall’Unesco, battendo quasi sempre i cinefili in finale.
Pensate con indulgenza, penitenziagite. Anzi, visto che non sono immune al brutto virus: pensiamo con indulgenza, penitenziagiamo.

PS  – che vino ho bevuto la scorsa settimana, che vino. Un bianco insieme semplice e solenne, composto e profondo, senza un ornamento di troppo: un tempio dorico greco in forma liquida, credo il miglior Pinot Bianco (insieme a quello di Martin Abraham) prodotto oggi in terra italica. Pinot Bianco Vom Berg Rohregger, annata 2021. Accorrete, accorrete, se credete alle mie parole.

Condividilo :

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ultimi articoli