La malinconica bellezza del nebbiolo

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Il nebbiolo fa nascere rossi malinconici. Rossi di grande bellezza in molti casi, certo; ma rossi di carattere malinconico, autunnale, introverso. È un’uva-vino che capisco soprattutto quando parla in modo sussurrato. Se canta con voce piena, spiegata, può riempire di suono tutta la sala-palato, giù giù fino alle ultime file-gola. Ma io resto un po’ stordito, come se avessi le orecchie a due centimetri dalla bocca del baritono.

La metafora è chiara: i monumentali Barolo, i complessi Barbaresco, sono cantanti d’opera che mi lasciano ammirato per l’ampiezza di estensione, per l’intensità di timbro, per la profondità della loro voce. Io però ho i miei limiti di ascoltatore, non ho la capacità di concentrazione per reggere un’opera lirica di tre o quattro ore.
La tridimensionalità dei grandi rossi da nebbiolo è dunque affascinante ma saturante per i miei deboli mezzi palatali.
Preferisco la bidimensionalità dei rossi da nebbiolo più semplici.
Disegni leggeri, acquerelli ariosi che si esprimono sulla superficie piatta di un foglio, di una tela.

L’altro giorno, in trattoria, un amico e collega che non cito – perché già citato da me mille volte in altre occasioni, sempre con la dovuta ammirazione e riconoscenza – ha offerto al tavolo un delicatissimo Langhe Nebbiolo Cascina Roccalini. L’annata 2022 ha dato un rosso tenuemente colorato, dai profumi immediati di fragoline di bosco (o di serra, come si preferisce), tratteggiato con gentilezza nella trama tannica, misurato nella componente alcolica, rinfrescante nel finale: insomma, di travolgente bevibilità.

A questi patti non soltanto ammiro l’uva-vino nebbiolo per le sue straordinarie virtù architettoniche e plastiche, ma la amo per la sua grazia discreta, non appariscente, quasi timida.

 

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