Le folle adoranti e la bottiglia senza nome

Tempo di lettura: 4 minuti

Non saprei dire quante volte ho letto e scritto sul tema dell’assaggio alla cieca: decine, e più verosimilmente centinaia. Eppure un terreno tanto dissodato nasconde per me ancora qualcosa di insondato, di non del tutto chiaro. Ne subisco il fascino e torno irresistibilmente a elucubrarci sopra ogni volta che un qualche vino mi sorprende.

Il gioco di specchi delle percezioni ingannevoli davanti a un bicchiere nero, che cela il colore del vino, o davanti a un’etichetta ignota, o davanti a una bottiglia coperta di stagnola, è stato affrontato da tutte le angolazioni possibili. Dal punto di vista sbrigativamente psico/commerciale (“se dici a un assaggiatore che sta bevendo un vino costoso, quello in buona fede” eccetera); dal punto di vista della psicologia delle percezione, con tanto di dotti rimandi a esperti fisiologi e filosofi di ogni epoca; dal punto di vista tassonomico, che è un eufemismo per indicare il più casareccio armamentario teorico di chi fa guide dei vini.
Non ultimo, dal punto di vista del semplice gioco dei riconoscimenti, che può essere innocente e goliardico o scivolare pericolosamente nell’esibizione egoriferita di chi crede che distinguere alla cieca un Chianti da un Nobile di Montepulciano mostri alle genti la propria patente di grande esperto.

Più rari, almeno a mia conoscenza, gli studi psicoanalitici sulle sottili implicazioni emozionali inconsce che un vino senza nome suscita nel bevitore. Ricordava a cadenza regolare Veronelli che un vino è tale se ha un nome e un luogo di origine. “Da cosa si conosce un vino, eh? dalle insegne”*, era una delle sue citazioni preferite. Una bottiglia nuda, senza scritte, pone problemi non solo enigmistici o classificatori. Ci interroga sulla nostra spinta profonda a conformarci con il luogo comune, a riconoscere il riconosciuto. La bottiglia è nuda, ma anche noi lo siamo. Anche se si è attrezzati, anche se si è vecchi lupi di mare delle bevute, si è presi da una sorta di horror vacui. Non si hanno riferimenti. Si è in terra incognita.
Non c’è il dito, la folla di indici che puntano in una sola direzione: “ecco a voi il Richebourg 2005 DRC”, “me cojoni!”. E simmetricamente: “ma guarda, hanno avuto il coraggio di aprirci un Catozzo Ircino 2019, una merda imbevibile”.

Non farti influenzare, non berti l’etichetta”: l’esercizio spirituale del buon bevitore, pur ripetuto mille volte, spesso è un’arma spuntata. Lasciati uscire dalla porta della ragione, i pregiudizi rientrano dalla finestra dell’inconscio. Non c’è nulla da fare, se sorseggio un Grand Cru della collina di Montrachet la mia mente – e il mio palato – sono riluttanti a valutarlo come un vino bianco qualsiasi. E simmetricamente, se sorseggio un bianco qualsiasi, la mia mente e i miei sensi non si accorgono, non vogliono accorgersi se per caso si tratti di un vino di qualità del tutto assimilabile a quella di un Grand Cru della collina di Montrachet.

Anni fa mi hanno offerto un bianco marchigiano sfuso, presumibilmente da uve verdicchio. Con mia grande sorpresa tutti i miei sensori olfattivi, palatali e mnemonici rimandavano a una forma di vino precisa, quella di un ottimo Meursault. Se non li avessi ascoltati, avrei costretto i miei sensi e il mio giudizio a restare nel più confortevole recinto della routine: è un buon bianco sfuso, niente di più.

Invece occorre liberarsi della zavorra del già catalogato, del già assodato, e dare al vino – a ogni vino – la stessa dignità di partenza. La stessa chance di toccare la sommità del cielo, e magari di sfondarla.

Un’ennesima conferma dell’importanza primigenia di questa postura iniziale davanti a un bicchiere l’ho avuta tre sere fa gustando un sontuoso Saint-Aubin La Chatenière 2012 del grande Marc Colin. Un bianco in tutto e per tutto sovrapponibile alla silhouette di uno Chevalier-Montrachet** o addirittura di un Montrachet stesso (non di quelli più grassi e opulenti, però):

– pienezza e luminosità del colore dorato: ✓

– finezza ed espansione aromatica  ✓

– intensità e focalizzazione dei profumi: ✓

– integrazione del timbro boisé: ✓

– precisione dell’attacco di bocca: ✓

– ampiezza e articolazione del centro bocca: ✓

– profondità e lunghezza del finale: ✓

A margine, trovo incredibile che un vinificatore di assoluto genio come Marc Colin non sia stato – se non parzialmente e tardivamente – riconosciuto tale dagli esperti, dagli appassionati e dal mercato. Dopo quarant’anni di grandi bottiglie, la Revue du Vin de France ne ha finalmente tessuto le lodi qualche tempo fa, ma con degnazione e con un fondo di condiscendenza. Proprio come l’Academy hollywoodiana quando si decide ad attribuire a un grande regista, che ha per decenni ignorato, un bonario Oscar alla carriera.

Ora, può dispiacermi che un Colin venga sottostimato, che i suoi vini non siano circondati dalla suddetta folla di indici che puntano verso di lui.
Ma sono felice di non farmi influenzare, in un senso o nell’altro, da un nome e da un luogo.
O quantomeno di cercare costantemente di non farmi influenzare, in un senso o nell’altro, da un nome e da un luogo.

___§___

* citazione non letterale, a memoria, di Sante Lancerio, cinquecentesco bottigliere del Papa Paolo III

** ovvero di un vino molto più prezioso, reputato e costoso

Condividilo :

Una risposta

  1. Come già ti dissi su Instagram, la mia cantina custodisce un 2006 e un 2016. Il 2006 verrà presto decapitato e scivolerà felice nella mia gaudente gola….. Non conoscevo ancora la ‘mano’ di Colin, li comprai ad onestissimo prezzo ispirato da quelle intuizioni che talvolta semplicemente accadono e da un St. Aubin di De Montille 2014 sontuoso e dritto come un fuso.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ultimi articoli