Non saprei dire quante volte ho letto e scritto sul tema dell’assaggio alla cieca: decine, e più verosimilmente centinaia. Eppure un terreno tanto dissodato nasconde per me ancora qualcosa di insondato, di non del tutto chiaro. Ne subisco il fascino e torno irresistibilmente a elucubrarci sopra ogni volta che un qualche vino mi sorprende.
Il gioco di specchi delle percezioni ingannevoli davanti a un bicchiere nero, che cela il colore del vino, o davanti a un’etichetta ignota, o davanti a una bottiglia coperta di stagnola, è stato affrontato da tutte le angolazioni possibili. Dal punto di vista sbrigativamente psico/commerciale (“se dici a un assaggiatore che sta bevendo un vino costoso, quello in buona fede” eccetera); dal punto di vista della psicologia delle percezione, con tanto di dotti rimandi a esperti fisiologi e filosofi di ogni epoca; dal punto di vista tassonomico, che è un eufemismo per indicare il più casareccio armamentario teorico di chi fa guide dei vini.
Non ultimo, dal punto di vista del semplice gioco dei riconoscimenti, che può essere innocente e goliardico o scivolare pericolosamente nell’esibizione egoriferita di chi crede che distinguere alla cieca un Chianti da un Nobile di Montepulciano mostri alle genti la propria patente di grande esperto.
Più rari, almeno a mia conoscenza, gli studi psicoanalitici sulle sottili implicazioni emozionali inconsce che un vino senza nome suscita nel bevitore. Ricordava a cadenza regolare Veronelli che un vino è tale se ha un nome e un luogo di origine. “Da cosa si conosce un vino, eh? dalle insegne”*, era una delle sue citazioni preferite. Una bottiglia nuda, senza scritte, pone problemi non solo enigmistici o classificatori. Ci interroga sulla nostra spinta profonda a conformarci con il luogo comune, a riconoscere il riconosciuto. La bottiglia è nuda, ma anche noi lo siamo. Anche se si è attrezzati, anche se si è vecchi lupi di mare delle bevute, si è presi da una sorta di horror vacui. Non si hanno riferimenti. Si è in terra incognita.
Non c’è il dito, la folla di indici che puntano in una sola direzione: “ecco a voi il Richebourg 2005 DRC”, “me cojoni!”. E simmetricamente: “ma guarda, hanno avuto il coraggio di aprirci un Catozzo Ircino 2019, una merda imbevibile”.
“Non farti influenzare, non berti l’etichetta”: l’esercizio spirituale del buon bevitore, pur ripetuto mille volte, spesso è un’arma spuntata. Lasciati uscire dalla porta della ragione, i pregiudizi rientrano dalla finestra dell’inconscio. Non c’è nulla da fare, se sorseggio un Grand Cru della collina di Montrachet la mia mente – e il mio palato – sono riluttanti a valutarlo come un vino bianco qualsiasi. E simmetricamente, se sorseggio un bianco qualsiasi, la mia mente e i miei sensi non si accorgono, non vogliono accorgersi se per caso si tratti di un vino di qualità del tutto assimilabile a quella di un Grand Cru della collina di Montrachet.
Anni fa mi hanno offerto un bianco marchigiano sfuso, presumibilmente da uve verdicchio. Con mia grande sorpresa tutti i miei sensori olfattivi, palatali e mnemonici rimandavano a una forma di vino precisa, quella di un ottimo Meursault. Se non li avessi ascoltati, avrei costretto i miei sensi e il mio giudizio a restare nel più confortevole recinto della routine: è un buon bianco sfuso, niente di più.
Invece occorre liberarsi della zavorra del già catalogato, del già assodato, e dare al vino – a ogni vino – la stessa dignità di partenza. La stessa chance di toccare la sommità del cielo, e magari di sfondarla.
Un’ennesima conferma dell’importanza primigenia di questa postura iniziale davanti a un bicchiere l’ho avuta tre sere fa gustando un sontuoso Saint-Aubin La Chatenière 2012 del grande Marc Colin. Un bianco in tutto e per tutto sovrapponibile alla silhouette di uno Chevalier-Montrachet** o addirittura di un Montrachet stesso (non di quelli più grassi e opulenti, però):
– pienezza e luminosità del colore dorato: ✓
– finezza ed espansione aromatica ✓
– intensità e focalizzazione dei profumi: ✓
– integrazione del timbro boisé: ✓
– precisione dell’attacco di bocca: ✓
– ampiezza e articolazione del centro bocca: ✓
– profondità e lunghezza del finale: ✓
A margine, trovo incredibile che un vinificatore di assoluto genio come Marc Colin non sia stato – se non parzialmente e tardivamente – riconosciuto tale dagli esperti, dagli appassionati e dal mercato. Dopo quarant’anni di grandi bottiglie, la Revue du Vin de France ne ha finalmente tessuto le lodi qualche tempo fa, ma con degnazione e con un fondo di condiscendenza. Proprio come l’Academy hollywoodiana quando si decide ad attribuire a un grande regista, che ha per decenni ignorato, un bonario Oscar alla carriera.
Ora, può dispiacermi che un Colin venga sottostimato, che i suoi vini non siano circondati dalla suddetta folla di indici che puntano verso di lui.
Ma sono felice di non farmi influenzare, in un senso o nell’altro, da un nome e da un luogo.
O quantomeno di cercare costantemente di non farmi influenzare, in un senso o nell’altro, da un nome e da un luogo.
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* citazione non letterale, a memoria, di Sante Lancerio, cinquecentesco bottigliere del Papa Paolo III
** ovvero di un vino molto più prezioso, reputato e costoso
Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen.
Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.
Una risposta
Come già ti dissi su Instagram, la mia cantina custodisce un 2006 e un 2016. Il 2006 verrà presto decapitato e scivolerà felice nella mia gaudente gola….. Non conoscevo ancora la ‘mano’ di Colin, li comprai ad onestissimo prezzo ispirato da quelle intuizioni che talvolta semplicemente accadono e da un St. Aubin di De Montille 2014 sontuoso e dritto come un fuso.