Non documentata sul piano storico, la presunta sentenza di Carlo V todos caballeros (faccio “tutti cavalieri”) è passata a indicare comunemente la facile scorciatoia di premiare chiunque senza distinzioni.
Oggi si todocaballerizza tutto e tutti. Prima ancora che la pratica, l’attitudine critica preventiva – che non significa partire con dei pregiudizi negativi, significa essere e restare sempre all’erta – è il progetto stesso di offrire una visione critica a essere pressoché scomparso.
In ogni campo, o quasi.
Gustoso e insieme amaro il fondo* apparso nell’Economist qualche settimana fa sul tema. In questo caso restando nell’ambito letterario. Ma se l’oggetto di lavoro è il vino, il quadro torna allo stesso modo.
Ecco un’ampia selezione del testo:
“Nella vita di un lettore esistono pochi piaceri la cui purezza possa rivaleggiare con quella di una spassosa recensione negativa. (…)
Nella vita letteraria di oggi soddisfazioni del genere sono sempre più rare. Aprendo la sezione delle recensioni letterarie ci sono ottime probabilità di leggere scrittori che descrivono reciprocamente le proprie opere con termini come ‘lirico’, ‘brillante’, ‘profondo’, laddove in passato era più facile incontrare epiteti come ‘noioso’ e ‘idiota’.
Nelle pagine delle recensioni emerge quella che uno scrittore ha definito l’inflazione endemica dei giudizi positivi. Un giornalista del sito BuzzFeed ha perfino annunciato che la sezione dedicata ai libri non avrebbe più pubblicato recensioni negative. Una splendida notizia per gli scrittori (e le loro madri) in tutto il mondo, non c’è che dire. Molto meno per i lettori. Il mondo della letteratura potrà evitare di piangere per i poeti feriti dalle recensioni negative, ma dovrà fare i conti con la morte della cosiddetta stroncatura.
A dire il vero pochi se ne lamenteranno pubblicamente. La critica letteraria non è una vocazione nobile. D’altronde, come dicevano gli antichi, in nessuna città si trova la statua di un critico. Ma è altrettanto vero che poche città hanno dedicato monumenti agli ingegneri delle fogne o ai chirurghi della prostata. Eppure sono stati utili, così come lo sono i critici” (…)
Nell’ambiente letterario c’è un segreto di pulcinella: la maggior parte dei libri fa abbastanza schifo. Allora il compito del critico è quello di setacciarli, innanzitutto fisicamente (il primo, scoraggiante atto della giornata di un critico è quello di ravanare nel sacco pieno di libri recapitato in redazione ogni settimana) e poi figurativamente, attraverso le recensioni. George Orwell, critico di esperienza, sapeva che le recensioni devono per forza essere brutali. Per questo scrisse che ‘in più di nove casi su dieci l’unica critica onesta dovrebbe essere ‘questo libro non vale niente’, mentre l’unica recensione spassionata dovrebbe essere ‘questo libro non mi interessa in alcun modo e non ne scriverei mai se non fossi pagato per farlo’.
Tuttavia al momento è raro che le recensioni siano pungenti. Alcune testate mantengono la tradizione della critica, ma troppo spesso le recensioni sembrano un complimento dovuto. (…)
Internet è una delle cause di questo rammollimento. La rete ha alterato sia l’economia della critica (i giornali si sono rimpiccioliti e hanno poche pagine da dedicare ai libri, dunque i redattori le riempiono con i libri che bisogna leggere e non con quelli che andrebbero evitati) e anche la sua opportunità (gli insulti che un tempo erano divertenti se scagliati nell’immediatezza, vengono a noia quando rimangono online per l’eternità). La tendenza a reclutare recensori specializzati non ha certo aiutato. Se sei uno degli unici due esperti al mondo nella prima scrittura cuneiforme sumera e scrivi una recensione negativa sul libro dell’altro esperto, la cosa potrà anche essere divertente per venti minuti, ma poi te ne pentirai per vent’anni.
Ci sono stati diversi tentativi di riportare in auge le critiche al vetriolo. Nel 2012 due critici (di cui uno oggi lavora per l’Economist) hanno lanciato un premio chiamato ‘stroncatura dell’anno’, ‘una crociata contro l’apatia, la deferenza e il pensiero pigro’. È durato per tre edizioni. Fleur Macdonald, una dei fondatori, ritiene che ‘probabilmente la scena letteraria ne avrebbe bisogno oggi più che mai’, ma ammette che sarebbe difficile resuscitare il premio e ottenere una sponsorizzazione, perché ‘le recensioni negative sono ritenute controverse’. (…)
Dunque oggi le spade non brillano. Ma resta il fatto che dovrebbero comunque luccicare, almeno ogni tanto. Forse qualcuno dimentica che il mercato delle recensioni non è costituito né dai critici né dagli autori, ma dai lettori, e i lettori continuano a voler sapere ‘se fanno bene a spendere 15,99 sterline per un libro’. Il critico, di conseguenza, ha il ‘dovere’ di dirgli la verità.”
Ecco, il dovere di dire la verità. Lungi dall’essere inopportuno o irrispettoso, come la cancel culture e il politicamente corretto inducono a ritenere, il pensiero critico è decisivo per la vita culturale e direi anche democratica. Tempo fa un lettore naif commentò su questo soggetto: “eh, ma è brutto leggere commenti negativi su un vino, allora è meglio scrivere solo giudizi positivi oppure astenersi”.
Sulle prime sembra quasi una lettura condivisibile: faccio vedere ai lettori solo il bello, il buono, quello che va bene. Perché parlar male di altro, di altri? Ma è solo un velo ipocrita, una superficie pittorica senza profondità. Nei fatti se tutti sono cavalieri, nessuno lo è. Assumersi la responsabilità di una giudizio negativo è più un dovere che un diritto.
Un errore comune è confondere la figura del critico altezzoso e capriccioso (sul calco del terrorizzante recensore di Ratatouille), che gode a stroncare, con quella del critico che dà la sua opinione con chiarezza e onestà. Sono due posture – come va di moda dire – radicalmente diverse.
La sincerità deve ovviamente accompagnarsi al rispetto, dovuto sempre e comunque. Il modo in cui si esprime una critica negativa è perciò decisivo. D’altronde la stessa legislazione italica in materia di potenziale diffamazione è chiara: un testo pubblicato deve rispettare i tre criteri della verità (devo scrivere solo cose vere), della pertinenza (devo scrivere solo su un vino, e non sulla cugina scema del suo enologo o sull’orrido colore delle pareti della sala di degustazione), della continenza (devo scrivere con toni rispettosi e misurati).
Insomma, devo essere idealmente il cane da guardia che abbaia se qualche ladro cerca di entrare. Se il ladro, ovvero la scarsa qualità, entra ed esce quando vuole, e nessuno abbaia, tutto si confonde e perde valore.
Tutti sono cavalieri.
* non si riesce a ripescarne l’autore
Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen.
Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.
2 risposte
Sono decisamente d’accordo Fabio, e aggiungerei alle doti del critico l’empatia. Trovandosi di fronte a un vino poco convincente, frutto dell’impegno di un viticoltore sincero, il suggerimento privato mi parrebbe da preferirsi alla stroncatura pubblica, che invece trovo quanto mai adeguata per alcuni prodotti ammiccanti a mode del momento in cui la scarsa qualità organolettica viene propinata come un pregio (non senza malafede).
Certo, in linea di principio è lodevole dare un parere privato a un vignaiolo che è incappato in un’annata interpretata poco felicemente. Di sicuro è opportuno non fare alcuno sconto a operazioni palesemente furbesche. Purtroppo temo che la prima opzione, pur molto sensibile e apprezzabile, confligga con la necessità superiore di dare ai lettori un quadro il più possibile chiaro e completo.