I vini di Hitchcock

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In una gara interdisciplinare tra l’Oltrepò Pavese e l’Oceano Indiano per il primato nell’estensione percepita dal bevitore di vino medio, vincerebbe il primo a mani basse.
Qui un numero impressionante di aziende produce un numero impressionante di vini, declinati in tutte le tipologie possibili e immaginabili. All’appello manca forse il Petit Manseng Rifermentazione Ancestrale Demi Doux, ma sospetto che in qualche enclave oltrepavese si possa rintracciare, con un’indagine un po’ approfondita.

I nuclei produttivi storici, invece, sono molto meno numerosi. Tra i più illustri va annoverato senza alcun dubbio Frecciarossa, che ha oltre un secolo di attività vitivinicola alle spalle. L’azienda di Casteggio produce vini stilizzati, per tradizione particolarmente longevi. Un Frecciarossa Grand Cru (così indicato in etichetta) del 1969 ha fatto un figurone stappato in occasione dei cinquant’anni di una notissima firma del giornalismo enologico italico: ancora vitale nel colore, un poco sulle sue sul piano aromatico ma capace di una progressione gustativa significativa, per un rosso di mezzo secolo di età.

Sorprendente, ma poi nemmeno tanto, ricordare che già negli anni Venti del secolo scorso i vini Frecciarossa fossero molto apprezzati da un personaggio illustre come Alfred Hitchcock. Scrive in proposito Valeria Radici Odero, l’attuale titolare della casa vinicola:

Il suo primo film, The pleasure Garden, è del 1925, era ancora l’epoca dei film muti e questo fu in parte girato sul Lago di Como. Hitchcock soggiornava a Villa d’Este e lì venivano serviti i vini di Frecciarossa. Lui si innamorò de La Vigne Blanche (si, all’epoca i nostri vini avevano dei nomi francesi), che era un assemblaggio di Riesling renano e Pinot Nero vinificato in bianco. Tanto che mandò un funzionario della Paramount a comprargliene 20 casse, come racconta anche Veronelli nel suo libro “I Vini d’Italia” del 1961.
Mio nonno, Giorgio Odero, e Hitchcock finirono per incontrarsi negli anni ’50, e quest’ultimo gli lasciò una “dedica” vergata di getto sul retro di un menu.

Nella linea produttiva attuale, che comprende una dozzina di referenze, ho trovato particolarmente riuscito l’Anamari, taglio di croatina, barbera e uva rara proposto al mercato per la prima volta con la vendemmia 2017. Un rosso austero ma allo stesso tempo comunicativo, lontano anni luce dal modello di rosso piacionico, ammiccante, esplicitamente morbido e fruttato. L’Anamari va al contrario atteso con pazienza, soprattutto en vin jeune. Non si tratta di attese snervanti, beninteso; solo di una misurata ossigenazione, per convincere il vino che non è tra incompetenti e che può esprimersi liberamente.

Il 2019 mi ha dato – in stile veronelliano anni Sessanta – colore rubino brillante, bouquet di viola e più accentuato di amarena, corpo pieno, armonico, di stoffa sostenuta ed elegante.
O, più umilmente: colore di buona intensità ma non saturo, luminoso; aromi inizialmente reticenti, contratti, in un quadro olfattivo comunque nitido; graduale apertura su profumi limpidi di frutto succoso, gusto dalla trama tannica fitta, di grana particolamente fine, finale ritmato, espansivo, tenace.

PS a margine annoto che, letto qualche settimana fa l’aneddoto hitchockiano, ho pensato fosse cosa buona e giusta mettere in contatto Valeria con Edoardo Ventimiglia dell’azienda Sassotondo. Il nonno di Edoardo è stato infatti negli anni Venti il primo operatore di macchina (all’epoca non esisteva la definizione di “direttore della fotografia”) del regista inglese, ed è curioso che le famiglie di due case vinicole italiane condividano un simile tratto di vita comune.

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