Adagiata in una conca alla destra del fiume Temo, sulla costa occidentale dell’isola, Bosa è uno dei borghi più belli della Sardegna. Lungo il colle di Serravalle, che ha singolare forma troncoconica, si addossano le case colorate e le vie medievali dell’antico quartiere Sa Costa, punteggiato da stradine acciottolate e scalinate in trachite, dove tuttora operano alcune botteghe che tramandano l’arte locale del filet, il ricamo su telaio che è uno degli esempi più importanti della tradizione tessile sarda: i temi dei suoi disegni – sas mustras nel dialetto locale, il logudorese – rimandano a modelli figurativi geometrici, araldici o d’ispirazione religiosa, animale, vegetale.
Dagli spalti del Castello di Serravalle o dei Malaspina, in cima al colle, si gode uno spettacolare panorama sui tetti delle case, sulle cupole delle chiese (tra cui quella maiolicata della Cattedrale) e sulle anse del Temo che raggiungono il mare. All’interno del perimetro del castello, la chiesa di Nostra Signora de sos Regnos Altos ospita un interessante ciclo di affreschi di ambito francescano e periodo italo-provenzale, databile tra il 1350 e il 1370, che articola episodi e raffigurazioni su tre pareti.
Sulla sinistra del Temo, attraversando verso l’esterno uno dei due ponti che sono gli unici accessi al centro storico, c’è un altro quartiere caratteristico, Sas Conzas, una serie di fabbricati, sempre colorati, che sfilano sul lungofiume, che un tempo erano adibiti alla concia delle pelli, da cui il nome (sulla via c’è un museo che ospita fotografie e macchinari d’epoca), e che oggi, dopo un lungo lavoro di recupero (a metà degli anni Settanta Mario Soldati le descriveva ancora con «intonaci scrostati e striati di scolature brune, finestre senza vetri, nere occhiaie vuote»), riadattati a uso residenziale o commerciale.
San Pietro, l’architettura religiosa più interessante di Bosa, è situata un paio di chilometri fuori dal paese e vi si può accedere anche lungo il Temo, ed è quello che ho fatto, noleggiando un pedalò sulla riva. Sul piano delle dimensioni è poco più di una chiesetta, ma rappresenta uno dei monumenti romanico-gotici più importanti della Sardegna: iniziata nell’XI secolo per mano del vescovo Costantino de Castra, ha avuto ampliamenti nel secolo successivo – la bellissima abside e il robusto campanile – e dei completamenti nel XIII secolo. Colpisce la purezza del suo rigore: severa all’esterno (la facciata, attribuita ad Anselmo da Como, è scandita da tre archi a sesto acuto e sormontata da una piccola, graziosa edicola), spoglia all’interno, dove predomina il colore della pietra locale.
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«La Malvasia di Bosa appartiene agli Sherries naturali di Sardegna, come la Vernaccia. Ma è di una classe nettamente superiore. Anche Cyril Ray riconosce tale superiorità: “Al profumo, sembra più dolce che al gusto, che è poi quello di uno Sherry medium, un amontillado oppure un oloroso: non succulento, ma neanche completamente secco. Il bouquet è piacevolmente come di fiori”. Esistono, tuttavia varie altre Malvasia di Bosa» scriveva Mario Soldati in Vino al vino.
È così: la Malvasia di Bosa viene come viene, i suoi processi produttivi non sono prevedibili, anche per effetto della flor, un velo di lieviti provocato dalla scolmatura delle botti che protegge il vino e parallelamente ne provoca l’ossidazione, liberando delle aldeidi nobili responsabili delle particolari note organolettiche del vino, che nelle versioni più secche può ricordare lo Sherry di Jerez o il Vin Jaune della Jura.
La Malvasia di Bosa, Doc dal 1972, nasce in sette comuni della Planargia – Bosa, Magomadas, Modolo, Tresnuraghes, Suni, Tinnura, Flussio in provincia di Oristano –, di cui i più importanti sono i primi quattro. La presenza dell’uomo è qui antichissima (domus de janas e nuraghi testimoniano la presenza di civiltà preistoriche) e la malvasia di Sardegna vanta un’origine che risale alla dominazione bizantina (VI-X secolo). Qui ha trovato il suo habitat ideale: suoli calcareo-tufacei, sciolti, magri e soleggiati vicino al mare. La viticoltura locale alterna impianti tradizionali ad alberello a più moderne spalliere potate a guyot.Tradizionalmente la Malvasia di Bosa è sempre stato considerato il vino dell’accoglienza e della conversazione, come dice un detto locale (“su inu chi cheret chistionadu”). Un “vino di comunità”, come lo definiva Giovanni Battista Columbu, che un tempo non veniva nemmeno commercializzato: per berlo bisognava venire a Bosa.
Le ultime due annate prodotte da Piero Carta testimoniano appieno quando la Malvasia di Bosa sia un vino libero e anarchico: il Filet 2021 sembra un Vin Santo di mare per le dominanti di frutta secca e mallo di noce, mentre il Filet 2020 è più vicino alle temperie radicali di uno Sherry o di uno Château-Chalon: secco, austero, empireumatico, iodato.
«Dal 2017, quando è nata l’azienda, la Malvasia è stata sempre secca, ma quella storica aveva del residuo zuccherino anche dopo anni di botte, perché nelle annate regolari, che erano più stabili, le uve venivano vendemmiate a metà ottobre con surmaturazione in pianta e gli sbalzi termici notturni portavano a una formazione di botrite che esaltava lo zucchero».
Piero ha omaggiato nel nome della sua Malvasia l’arte locale del ricamo, il filet, e la tradizione della sua famiglia: la nonna filava all’aperto con il telaio sulle gambe, come si vede ancora oggi fare passeggiando per le viuzze del centro di Bosa.
La Cantina Carta si trova in località Santa Lucia a Magomadas. Dalla vigna di fronte alla casa, mezzo ettaro del 1983 da cui è partito tutto (oggi i metri quadrati di proprietà sono 7000 più un ettaro in gestione), si vedono i paesi di Magomadas e Tresnuraghes. Piero m’indica il suolo calcareo-marnoso, dove il caldo provoca delle spaccature nella terra, e le due varietà di malvasia: quella di Bosa dal grappolo lungo e spargolo, e quella di Cagliari dal grappolo più compatto.
«La malvasia è sensibile allo oidio e soffre di acinellatura. Come portainnesto uso il 420A, moderatamente vigoroso: la malvasia non ha bisogno di vigoria. Il cambiamento climatico ha portato quasi alla scomparsa del maestrale che soffiava tra le vigne da metà mattina fino al pomeriggio: portava salinità e ha inciso sulla storia della malvasia. Oggi dominano invece i venti caldi del sud che prima arrivavano solo per una decina di giorni».
La cantina, in pietra locale (trachite di Bosa), è sotto la casa. Assaggiamo dalle botti. Il 2023 ha un’aromaticità diffusa e leggera, con note di fiori di tiglio ed erbe di campo che progressivamente si trasformeranno. Il 2022 sente già l’influsso della flor con note ossidative di nocciola, mallo di mandorla e frutta secca in pectore. Poi ci sono le annate vecchie, conservate nelle damigiane, molte delle quali sono il lascito del padre.
«Se n’è andato giovane da Bosa ma non ha mai dimenticato il suo luogo origine. Era un meccanico, riparava e vendeva escavatori e ruspe, aveva una sorta di concessionaria per le autostrade. Ha piantato la vigna nel 1983 quando avevo otto anni e nel 1987 ha prodotto la sua prima Malvasia. A quattordici mi chiedeva una mano ma io non sopportavo questo lavoro. Gli dissi che ci avrei fatto un campo di calcetto una volta che sarebbe diventata mia. Ma lui voleva fare la Malvasia perché era un legame con il territorio. Era un uomo forte e visionario».
Assaggiamo le annate più vecchie in casa.
La 2011 ha colore topazio, volatile vibrante e alcol nobile, sentori di mandorla, lunga persistenza sapido-acida.
«È stata la mia prima annata e stava per finire nel lavandino. È l’anno in cui mio padre si è ammalato, un ictus subito dopo la vendemmia. Ho abbandonato il master, il lavoro, la fidanzata e il vino. Abbiamo aperto questa botte invisibile solo nel 2020 e, dopo averla assaggiata volevo buttarla, ma Elisa, la mia compagna, che è sommelier, mi ha detto che ero pazzo: l’abbiamo travasa nella damigiana ed è uscito questo vino. Aveva ragione lei». Hanno un figlio di un anno e mezzo che si chiama Paolo, come il padre di Piero, scomparso nel 2018, all’età di 78 anni.
Il 2014 ha sentori di soffitta e granaio come un Vin Santo, cui rimandano anche le note di mallo e gheriglio di noce, poi un senso di arbusti, un invitante afflato morbido-secco, la cui dolcezza residua, sopra i 15 grammi, non sottrae spazio all’allungo acido.
«Abbiamo valori di cinque o sei di volatile, che però non diventa mai acetica. Ogni bottiglia rispecchia l’annata d’origine, non voglio vini uguali».
Il 2015 è più secco, sente il mare e gli arbusti, ha la mandorla e il gheriglio di noce, sapidità salmastra e persistenza asciutta, succosità, forza, verticalità.
«Mio padre vinificava in legno non in acciaio e faceva macerazione dalle due e alle sei ore, poi torchiava. Io invece di ore ne faccio dodici o anche ventiquattro, come nel 2017, ma tornerò alla regola di mio padre».
Il 2009 ha colore ambra chiara ed è un tripudio di flor, ossidazione nobile, arbusti, iodio, mare, sale, miele d’acacia, esteri. Purezza finale di erbe essiccate, di mandorla tostata.
Il 2006, tra il topazio e l’ambra, sa di miele d’erica e susina selvatica, ha palato longilineo, secco, succoso, invitante, sapido, salmastro, con gheriglio di noce e persistenza assoluta.
Il 2003 coniuga il mallo di noce e l’albicocca secca, è succoso-secco, profondo-contrastato, con verticalità e purezza in un inscindibile connubio.
Il 1999, dal colore luminoso, ha il naso di un grande Sherry e la detonazione di un grande Jura, con arbusti, iodio e frutta secca sublimata, un sorso infervorato di note salmastre, sapide, contrastate, con finale lunghissimo.
Il 1998 è accende di colore e sentori: mandorla sbucciata, mandorla tostata, pasta di mandorla, carica salmastra, arbusti, ossidazione nobile, persistenza, quintessenza.
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Poco più sotto, in località Badde Nuraghe, “cru” di Magomadas, c’è l’azienda Oggianu, fondata da Angelo Oggianu nel 1956 con 4000 metri quadri di vigneto ed ereditata nel 1968 dal figlio Emidio Oggianu, ferroviere, che, dopo essere andato in pensione nel 1995, acquista nuove vigne, convertite da alberello a spalliera, fino ad arrivare a un ettaro (iscritto all’albo della Doc nel 2000), edifica la cantina e organizza un luogo d’accoglienza con due piccoli appartamenti con vista sul mare.
Oggi, che Emidio è arrivato alla venerabile età di 90 anni, questa realtà agricola è guidata da Stefano Oggianu, suo figlio, che ha esteso la proprietà vitata a due ettari, piantando dal 2019 anche alcune vigne di vermentino su terreni argillosi per la produzione di un bianco secco chiamato Lunai. Lavora come responsabile informatico a Parma, dove vive, ma il rapporto con le proprie origini non è mai venuto meno. Stefano non è presente, mi ricevono Antonio Mulas, che si occupa della campagna, e Silvano Chelo, responsabile commerciale.
Passeggiamo nella vigna prospiciente la cantina, lungo gli otto filari, circa 2000 metri quadri, che rappresentano il nucleo più vecchio, gli ex alberelli sessantenni convertiti a guyot. Il suolo è calcareo; il mare, in prospettiva, così vicino sull’orizzonte da poterlo quasi toccare.
«Emidio Oggianu ha cominciato a fare vino nei primi anni Duemila, documentandosi, ma Stefano ha trovato in cantina una bottiglia del 1998» mi racconta Silvano.
«In vigna facciamo diradamento, lasciamo pochi grappoli per pianta» dice Antonio. «La vendemmia, che in genere comincia tra la fine di settembre e i primi di ottobre, è in tre passaggi. L’uva più matura del primo va in bottiglia e pestiamo con gli stivali le vinacce degli acini più appassiti per ricavarne qualcosa. La seconda vendemmia, dopo una settimana, va in bottiglia se si comporta bene. La terza, quella delle ultime uve, è la via passita: poco prodotto usato come taglio».
Passeggiamo per i filari. «Quest’anno ha piovuto quando le piante erano in fiore e ora la malvasia problemi di acinellatura. Stiamo aspettando che diventi dorata perché se rimane verde bisogna buttare tutto», continua. «Talvolta le femminelle sono più lunghe dei tralci a causa di parassiti chiamati nematodi che aggrediscono il ceppo rendendolo rachitico».
«Il meteo è come in Amazzonia: siccità e bombe d’acqua» commenta Silvano.
La fermentazione avviene con un inoculo di fermenti indigeni a temperatura controllata, poi il vino trascorre almeno tre anni in botti grandi e piccole di castagno e rovere.
La Malvasia di Bosa Riserva 2014 ha colore mogano ambrato intenso, sentori di mallo di noce, frutta secca, foglie autunnali, palato di pienezza e tensione, dolcezza e alcolicità, con una persistenza di arbusti, sale e iodio.
La Malvasia di Bosa Riserva 2013 ha veste profonda e ambrata, profumi di ossidazione nobile, di frutta secca, di tabacco biondo, di ginepro, di noce, di spirito nobile, con palato maturo, avvolgente, morbido e alcolico, secco e salino, con lunga persistenza salmastra, tra gheriglio di noce e legno di castagno.
La Malvasia di Bosa Riserva Emidio 2012 ha colore più fitto e intenso, un marrone mogano che introduce un profilo da Vin Santo di mare: soffitte e granai, mallo e gheriglio di noce, frutta secca, nocciola tostata, corteccia. Notevole l’impatto gustativo, nobile, ossidativo, con 17,5 gradi alcolici svolti ben incorporati in un allungo vigoroso.
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Sono andato a trovare i Columbu in località Santa Lucia a Magomadas, dove hanno la cantina di vinificazione (quella dell’invecchiamento, che apparteneva a un convento, è nel centro storico di Bosa) per una cena conviviale. Il nome di questa azienda è legato alla figura di Giovanni Battista Columbu, diventato suo malgrado celebre come simbolo del vino no-global grazie alla partecipazione nel docufilm Mondovino di Jonathan Nossiter (2004), che ha contribuito non poco a far conoscere il vino di questa zona.
Nel 1957 Battista Columbu, insegnante barbaricino, giunge a Bosa su invito di un collega, non sospettando che quella visita avrebbe segnato il suo destino di uomo e, addirittura, quello di un vino. Qui conosce Lina, sua futura moglie, e l’incontro con un parente di lei, l’imprenditore agricolo Salvatore Deriu Mocci, che imbottigliava dal 1966, avvicina Giovanni Battista al mondo quasi dimenticato della Malvasia di Bosa. Il resto è storia, con il riconoscimento di una storica Doc nel 1972.
Da anni (Battista è scomparso, novantaduenne, nel 2012) la produzione è saldamente nelle mani consapevoli dei fratelli Rafael e Gianmichele Columbu, i quali, con Vanna Mazzon, moglie di Gianmichele, producono una Riserva di Malvasia di assoluto carattere.
Eravamo una decina a tavola mentre imbruniva di fronte alla vigna Fraus con le luci di Magomadas sulla collina all’orizzonte. È stata una serata amena, piacevolissima, accompagnata da cibi locali, da vini interessanti che non conoscevo – il Bianco delle Cantine di Neoneli, il Me^uris di Cantina Vacca, l’Ultima Stella della cantina Gavino Delogu – e dai due alfieri della casa.
L’Alvarega 2021 è una versione dolce-succosa di malvasia, da uve vendemmiate tardivamente e da vinificazione spontanea in acciaio. Ha freschi profumi floreali, sorso di susina e pesca bianca.
La Malvasia di Bosa Riserva 2017 – lungo invecchiamento in botti scolmate di castagno con formazione di flor – è uno dei capolavori della storia recente di questo vino, un’alchimia perfetta tra la natura aromatica del vitigno e la sua trasfigurazione ossidativa, tra la mandorla sbucciata, le erbe essiccate, gli arbusti e la vibrazione empireumatica, salmastra, speziata.
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Contributi fotografici dell’autore
Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).