Longevità, mito dell’enofilo (e delle aziende farmaceutiche)

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Riassunto pratico
Non pensate che ogni tipo di vino migliori in bottiglia. Al contrario, pochi vini migliorano in bottiglia. Un rosso tannico e alcolico è più longevo di un bianco acquoso e vuoto. Il momento magico per stappare un Barbaresco o uno Gevrey-Chambertin esiste, ma nessuno può prevederlo con esattezza. Diffidate quindi di vaticini velleitari tipo “a maturità tra il giugno 2027 e i primi giorni del marzo 2031”. Certi vinelli dalle spalle strette sono tenacemente attaccati alla vita e reggono in bottiglia per decenni. Certi vinoni massicci e guasconi cedono ingloriosamente dopo pochi anni di cantina.
Comunque meglio bere un vino tre anni prima che tre mesi dopo, come dicono i collezionisti inglesi.

Versione lunga

I migliori bevitori hanno certezze (“50 euro per un vino da tavola imbottito di legno e dai tannini abrasivi: quest’azienda non mi frega più”; “mai bere un Brunello di Montalcino Riserva con una sogliola al vapore”; “la prossima volta che ordino al ristorante un orange wine senza conoscerlo sparatemi”), ma soprattutto hanno interrogativi cui non sanno dare risposta.

Fanno parte di quest’ultima categoria il comportamento aleatorio di una bottiglia nel corso del tempo, la sua capacità di contraddire le previsioni, l’imperscrutabilità delle centinaia di combinazioni e reazioni fisico-chimiche che intervengono nell’arco di anni o decenni a modificarne il profilo della gioventù.

In questo senso seguire l’evoluzione di un vino in bottiglia ha più a che fare con lo studio dei sistemi caotici che con un’osservazione di un percorso lineare già scritto. Certo, l’esperienza ci fornisce una sorta di frasario essenziale per dialogare con il vino che invecchia: gli si può dire buongiorno e buonasera, come sta?, da dove viene?, e il vino ci darà alcune risposte di base: “sono un Barolo e prima di morire mi potrai tenere in cantina anche per vent’anni e oltre”; “sono un Bianco di Capena: non azzardarti a stapparmi dopo tre o quattro anni di vetro, non mi troveresti più.”

Manca però un dizionario uomo/vino di quelli ponderosi e ricchi di lemmi, come il Larousse o il Cambridge. Bisogna quindi capirsi a gesti, come quando si chiede la strada a un giapponese. Alla pari di molti stappatori abituali, sono anni che mi interrogo su questo mistero. Per una sorta di igiene mentale devo scriverne a cadenza regolare.

Questa nuova puntata di riflessioni scaturisce dalla visita fatta al chiantigiano Castello di Monsanto, dopo “soli” ventitrè anni dal penultimo sopralluogo. La tenuta è giustamente famosa e non starò ad elencarne i numerosi meriti storici. Ai due o tre lettori che ancora non li conoscessero basti sapere che si tratta di rossi disegnati in punta di pennello, fini e modulati, soprattutto portatori di un esemplare senso di verità e di rispetto del territorio.  Vini insomma agli antipodi dei prodotti finti, pacchiani, sgraziati (“200% barrique nuove, blend sangiovese/tannat/cinghiale/sabbia/grasso di uro”) che in una passata era geologica popolavano la Terra e che oggi si trovano, in forma residuale, all’interno delle foreste amazzoniche più inaccessibili.

A colpirmi è stato l’andamento retrogrado e poi sinusoidale nello sviluppo dei profumi e del gusto di tre Chianti Classico Riserva Il Poggio di età venerabile: il 1969, il 1970 e il 1988. Retrogrado perché anziché mostrarsi sulle prime in riduzione, chiusi, hanno – quale più quale meno – offerto una palette aromatica da subito espressiva. Sinusoidale perché anziché spegnersi al gusto dopo una mezz’ora nel bicchiere – come di solito fa un vino vecchietto, che gioca le sue carte rimaste nei primi minuti – tutti e tre i vini hanno cominciato un’altalena di microfasi loquaci, seguite da microfasi reticenti o proprio mute. Sarò stato io ad avere le narici alternativamente aperte e chiuse?

A ogni buon conto, ecco le note di assaggio:

Chianti Classico Riserva Il Poggio 1969

Questa singola bottiglia è buona, ma non del tutto rappresentativa della qualità dell’annata”, chiosa al Pardini e a me Laura Bianchi, titolare della casa vinicola. Il vino ha colore normalmente aranciato, con tenui scintille granato. All’olfatto passa dal consueto trenino di analogie della terziarizzazione (funghi, terra del sottobosco e del soprabosco, mallo di noce) a più vitali rimandi alla ciliegia candita. Robusto il contrappunto delle note speziate e bello il finale, non lungo ma composto e puro.

Chianti Classico Riserva Il Poggio 1970

Il più espressivo dei tre, in questa fase della loro evoluzione. Qui la corrente odorosa delle spezie orientali si fa asse portante dei profumi, venata da un tono baritonale, scuro, profondo, che dà ampiezza, spazialità, “quinta teatrale” al sapore. Dei tre è quello che sta meno sulle montagne russe “profumato/silenzioso/profumato/chiuso/riaperto”.

Chianti Classico Riserva Il Poggio 1988

Il più originale nel ventaglio aromatico: rosolio e toni medicinali che lo avvicinano curiosamente a un Barolo, frutto candito, evoluzione controllata. Molto potente ma fine la maglia dei tannini, notevole progressione al palato e finale deciso. Anche l’88 si diverte a imboscarsi a tratti, come ad apparire e a nascondersi dietro una tenda: qui sulle note di cioccolato, là zitto; qui speziato, là zitto; qui agrumato eccetera.

Che insegnamento trarre? nessuno. Il vino longevo arriva a tarda età per una congerie di fattori potenziali imponderabili quali in primis il genius loci. Hai voglia a dire che la ricchezza estrattiva e alcolica siano conditio sine qua non. Sono conditio sine qua fors, conditio sine qua può esser.

Ho avuto la fortuna di bere troppi vini poco concentrati e purtuttavia belli tonici dopo decenni, per credere che stia tutto nella struttura di partenza.

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