Lo Gevrey-Chambertin Ostrea Trapet e il curioso fenomeno degli Jean

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Alcune sere fa sono stato invitato a partecipare a una degustazione di dieci annate dello Gevrey-Chambertin Ostrea di Trapet. Un’occasione rara di cui ringrazio Claudio Celio e il vecchio amico e collega Giampaolo Gravina. Questa cuvée restituisce al meglio i caratteri della prestigiosa appellation della Côte de Nuits: la serie aromatica è ampia; il frutto non è mai troppo dolce e tenero ma – senza risultare aspro o immaturo – mantiene un timbro austero; i tannini, puntiformi, sono appena terrosi; una sottile vena salina innerva il sorso.

Prima di alcune note di assaggio, prese dalla rete a strascico dei ricordi e non trascritte in modo ordinato, un paio di aneddoti autobiografici.

Ho una curiosa tradizione con i produttori borgognoni che si chiamano Jean. Li incontro casualmente, fuori contesto. Senza appuntamento. In un bar, o nella hall di un albergo. Mai nella loro cantina. Jean Trapet, padre dell’attuale titolare del domaine Jean-Louis, l’ho conosciuto nei primi anni Duemila, in un bistrot di Nuits-Saint-Georges. Stavo seduto a un tavolo accanto al suo: un conoscente comune, Jean-Pierre Peyroulou, si è accorto della sua presenza, l’ha salutato e poi me l’ha presentato. Non avevo in programma una visita nella sua tenuta, abbiamo chiacchierato brevemente e poi ci siamo congedati. Quando anni dopo sono tornato nella sede Trapet a Gevrey, le redini aziendali erano già interamente passate al figlio.

Mi è capitato qualcosa di simile con Jean Gros, patriarca della ramificatissima famiglia omonima. Non provo nemmeno a ripercorrere l’albero genealogico dei Gros che fanno vino in Borgogna: tra suddivisioni ereditarie, unioni di fratelli e sorelle, scissioni, abiure, antipapi, citare con precisione tutte le case vinicole che riportano il cognome Gros è un’impresa che metterebbe a dura prova l’enciclopedica conoscenza di un Castagno o di un Marino.

Nel 1998 stavo a Parigi per una breve vacanza. Alloggiavo in un piccolo albergo dalle parti degli Invalides. Una mattina, mentre scendevo le scale, ho sentito berciare da giù a voce altissima. Presumevo una lite, ma quando sono arrivato al piano terra ho visto che si trattava solo di un omone anziano che stava spettinando un malcapitato interlocutore per la forza dei decibel sviluppati. Era il vecchio Jean Gros, sordo come una campana, che “dialogava” con il consierge. Non ho quindi potuto fare a meno di sentire che parlava del suo domaine di Vosne-Romanée. In una pausa delle sue urla ho preso coraggio, mi sono presentato e gli ho detto che avevo conosciuto qualche giorno prima sua nipote Anne Gros. “Ah bah oui, bien sûr, la petite Anne”, mi ha investito con il volume sonoro di una discoteca di Rimini. In questa maniera bizzarra ho conosciuto il proprietario di una delle vigne più storiche di Vosne, il rarefatto monopole Clos de Réas.

Queste memorie – per me significanti, per altri sospetto meno – sono riaffiorate durante la prolusione sulla cuvée Ostrea. Si tratta di una selezione di uve da quattro parcelle (le uniche che ho riperticato sono le semisconosciute En Derée e Champerrier) poste sul versante nord di Gevrey, quello che confina con Brochon. Il domaine Trapet lavora in biodinamica da decenni e l’obiettivo, guarda caso, è di ottenere un vino “le plus naturel que possible”. A seconda dell’annata si usa una percentuale di grappoli interi che può arrivare al 50%.

1999
Bottiglia sfocata da un cornuto sentore di tappo e tuttavia capace, qua e là, di lampi di sapore molto piacevoli. Timbro del frutto autunnale, ma probabilmente più per la chiusura imperfetta che per la reale fase evolutiva del vino. Sono quasi sicuro che con un flacone sano il vino sia ottimo.

2005
Una piccola sorpresa per alcuni commensali ormai pregiudizialmente contro l’annata, considerata “eterodossa” e “mediterranea” più che classicamente borgognona. Come spesso accade con i millesimi più solari, la reale impronta del terroir emerge con l’affinamento in bottiglia. Forse nel 2008 sarà sembrato, come altri 2005, una specie di Primitivo di Manduria. Oggi è uno Gevrey stilizzato, netto, profilato, “di grande classe” (come si diceva un tempo).

2006
Una grande sorpresa, invece. Profumato, nitido, senza sbavature terziarie, ha gusto vibrante, sapido, reattivo, di progressione incalzante. Bellissimi i tannini, compatti ma comunicativi (vuole dire che la loro astringenza si sente ma che allo stesso tempo non ti asfaltano il palato).

2009
Vino bellissimo, delizioso, dal frutto delicato e intenso allo stesso tempo. Grana tannica impalpabile, torrente carsico di sapidità che scorre senza quasi farsi sentire però sostenendo il sapore e rilanciando di continuo.
Direi il più goloso della batteria.

2010
Stretto parente del 2009, se ne discosta per una maglia tannica più fitta, un frutto più tonico, un’architettura generale più monumentale. Quello che cede in dolcezza di frutto guadagna in articolazione e allungo. Notevolissimo e in prospettiva quasi eterno.

2011 e 2012
Dopo l’infilata di star 2009 e 2010 giunge una coppia inevitabilmente meno scintillante, tuttavia degna della massima considerazione per l’evidente capacità del produttore di cavare da due vendemmie non così favorevoli vini proporzionati, aggraziati, affusolati. Certo, la grana dei tannini è meno setosa e gli aromi hanno slabbrature vegetali un po’ crude, ma l’insieme è molto espressivo.

2015
Variazione stilistica nemmeno così lontana del 2005, con un frutto ancora più pieno e sodo e un ricamo aromatico più focalizzato. Sembra avere notevoli margini di miglioramento ed espansione in bottiglia. Allo stato attuale rispetto alle vendemmie più datate il centro bocca e il finale sono ovviamente più unidimensionali.

2016 e 2017
In entrambe le annate più recenti si coglie un ulteriore passo in avanti in termini di finezza nell’estrazione, precisione nel tratteggio aromatico, polposità del frutto. Quando dico polposità non intendo certo la carnosa pienezza di un rosso meridionale; intendo una polposità relativa alla tipologia: il frutto ha più rotondità ma rimane longilineo. Eccellenti margini di sviluppo.

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Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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