Oltrepò Pavese: lo stato dell’arte

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Se si osserva l’areale dell’Oltrepò Pavese su una mappa geologica d’Italia, all’interno di questa goccia? Grappolo? Escrescenza? Incastonata tra più regioni, distesa verso Sud adagiandosi sulle ripide prode dell’Appennino, si rinviene un caleidoscopio di ben 24 colori, ognuno corrispondente a un suolo di diversa matrice. Questa cornucopia costituisce certo una risorsa, ma anche una complicazione difficile da gestire in termini di definizione di progetti agronomici ed enologici. Peggio, ha condotto i produttori che vi lavorano a convincersi di poter coltivare praticamente TUTTO. In ordine sparso: Pinot Nero, Chardonnay, Riesling Italico (e pure quello più “nobile” renano), Barbera, Bonarda (alias Croatina), Uva Rara, Moscati vari ed eventuali, e compagnia cantando. E TUTTO vinificato e proposto più o meno in TUTTI gli stili dell’orbe terracqueo: fermi/frizzanti/spumanti, secchi/abboccati/dolci, rossi/rosati/ramati/bianchi, con macerazioni prefermentative a freddo, batonnage sui lieviti, travasi in omeopatica quantità, affinamenti in acciaio/anfora/cemento/legno, quest’ultimo con tostature e pezzature le più varie nonché potenzialmente proveniente da tante di quelle foreste da comporre un’intera geografia botanica. Quindi, assioma nr. 1: un problema dell’Oltrepò Pavese è la tuttologia.

 

Dal che discende il problema nr. 2: tutto ‘sto bailamme di roba non dà TUTTO buoni risultati. E nemmeno ha la stessa immagine o target di mercato di riferimento. Qualcosa (troppo poco, per adesso) si vende o si potrebbe vendere in forza di clamorosamente positivo rapporto qualità/prezzo e/o identità territoriale, altro in dame da 5 litri destinate alle campagne promozionali della grande distribuzione, altro in cisterne che viaggiano come api operose sulle strade dell’Oltrepò. Ergo, problema nr. 3: qui la diversità non è una risorsa, è un freno casinista. Poiché i soggetti protagonisti delle citate conflagranti modalità non hanno gli stessi interessi.

Ricapitolando: i proprietari di piccoli appezzamenti vendono la loro uva alle cantine sociali; le quali hanno interesse a pagarla il meno possibile, anche per riuscire a remunerare in qualche modo i loro soci conferitori; il che non è propriamente facile, poiché i principali clienti del vino (multi-tipologia) prodotto con dette uve sono grandi imbottigliatori, i quali vendono MOLTE bottiglie a suon di promozioni nella grande distribuzione, per tacere della non indifferente quantità di vino commercializzata sfusa. Tutto ciò considerando: la filiera così strutturata NON è remunerativa (assioma nr. 4).

E i disgraziati produttori, anche di grande tradizione e blasone, che tentano di far qualità, sono fortemente penalizzati in termini di immagine da questo perverso circuito. E per mettere insieme il pranzo con la cena, aspirano alla premiumizzazione dei loro vini, territoriale ma non solo, più una verginità che prescinda da tutti gli scandali, con conseguenze penali, che hanno squassato cooperative e quant’altro, più riuscire ad attirare e/o creare un nuovo target di consumatori che sappia apprezzare il molto che c’è da apprezzare. Un po’ difficile nella presente congiuntura di mercato, ma imprescindibile.

In questo scenario tristanzuolo, si intravede fortunatamente un po’ di luce. Nella forma della decisione di due “ingenti” entità inserite a pieno titolo nella filiera di cui sopra, ovvero la cantina sociale Terre d’Oltrepò e l’imbottigliatore Torrevilla che hanno creato, e potentemente investito, in nuove linee di prodotto di fascia alta. Ovvero inusitatamente hanno rifiutato di sottostare a un andazzo fossilizzato adesso insufficiente a creare valore, e conseguentemente osato mettere un piedino in un mondo nuovo sperabilmente remunerativo. E poiché i numeri saranno necessariamente importanti, l’inedita pervasività dei loro prodotti di alto rango dovrebbe riverberarsi sui vini dei piccoli produttori “qualitativi”, sdoganandone la fascia di prezzo presso un pubblico generalista (anche troppo), che lentamente potrebbe abituarsi a spendere di più per una bottiglia di vino.

Tanto più che ne è seguita una rivoluzione copernicana nel consiglio del Consorzio di Tutela, adesso non più monopolizzato da cantine sociali, imbottigliatori e quant’altro, ma con adeguata e prevalente rappresentanza di soggetti a qualche titolo votati alla qualità, e che si sbattono affinché i vini dell’Oltrepò conseguano il riconoscimento che meritano. Con presidente titolare di azienda storica (Francesca Seralvo, della Tenuta Mazzolino), e neo-direttore di origini locali ma aduso ad un contesto di rinomanza mondiale, e quindi alle relazioni più consone a promuoverlo (Riccardo Binda, fresco reduce da una felice esperienza bolgherese).

In questa disamina dei massimi sistemi dell’Oltrepò, vorrei sottolineare che i più volte citati soggetti responsabili dei grandi numeri produttivi non sono il diavolo, come temo si potrebbe evincere dalle mie elucubrazioni. Sono invece indispensabili per gestire e smaltire una rilevante quantità d’uva, che non trova sbocchi alternativi per una qualità che sarebbe possibile conseguire e a volte è già lì, sotto gli occhi di tutti. Purtroppo, come detto, le modalità con cui ciò avviene possono ridurre più di un attore della filiera alla canna del gas, e fungono da freno per sviluppi più remunerativi.

In questo contesto, il recente evento Oltrepò Terra di Pinot Nero, ha ribadito con forza un orgoglio ritrovato, e il proposito di puntare con convinzione su un vitigno identitario quant’altri mai (e ve ne sono ben 3.000 ettari circa, ovvero il terzo comprensorio a livello mondiale per superficie vitata, dopo Champagne e Borgogna). Per tacere di un fermento che si sostanzia nelle sperimentazioni a livello produttivo, in una qualità diffusa innegabile e in crescita, in una focalizzazione sempre più percepibile di caratteri distintivi dei vini proposti.

Nei due interessanti seminari (evviva la lingua italiana!) tenuti con la consueta competenza e comunicatività da Valentina Vercelli e Filippo Bartolotta è parso di ravvisare quanto segue. Per gli spumanti metodo classico, a fronte dell’attesa, sferzante freschezza del Pinot Nero, una sapienza esecutiva in termini del pressurage delle uve, con conseguenti trame di bollicine setose e ben integrate; e soprattutto un peculiare carattere di pienezza gustativa, che sublima l’effervescenza in una gastronomicità e potenzialità di abbinamento superiori alla media. Come se i Metodo Classico dell’Oltrepò fossero “più vino”, con tutta l’ambiguità che un assunto del genere può contenere. E per buona misura qualche isolata ma interessante eccezione che conferma la regola, per vini che ricercavano più spiccata complessità aromatica tramite l’evoluzione.

Venendo ai vini fermi, creatività in libertà, tra versioni di ingresso affinate solo in acciaio di immediata piacevolezza, ma non enorme articolazione; qualche affinamento in cemento; qualche interessante e ben caratterizzata selezione da singolo vigneto, con le differenze del caso; e per ogni cantina presente almeno una versione affinata in rovere (per lo più piccolo), con un curioso plebiscito per un tempo di affinamento di un anno. Sul quale a giudizio di chi scrive sarebbe il caso di ragionare, poiché il legno può irrigidire il tannino e ottundere la piena espressione aromatica, con i suoi profumi non difettosi in sé, ma in generale standardizzati, per non dire banali. A proposito, un plauso alla precisione esecutiva di vini senza riduzioni, acidità volatili o varie ed eventuali di sorta.

In un quadro generalizzato di un rapporto qualità/prezzo commovente, al punto da minacciare la sopravvivenza dei produttori, si lascia l’Oltrepò con l’impressione di un territorio di sottovalutata bellezza, che solo adesso inizia ad essere valorizzata con qualche progetto enoturistico di alto livello, con contorno di un’offerta gastronomica seconda a nessuno. Più un interessante fermento nella qualità dei vini, tra sperimentazioni, prese di coscienza di identità territoriale, affinamenti a livello stilistico, valorizzazione di un potenziale ancora da scoprire.

Il luogo è bello, il cibo gustoso, i vini buoni, accessibili e non noiosi, la gente è gentile e accogliente. What else?

La prima foto è tratta dal sito vinonews24.it; le altre sono del Consorzio di Tutela

 

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