Una parcella, un vino

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Nel mondo della produzione di vini pregiati esistono mille diversi approcci teorici, non pochi dei quali in opposizione frontale fra loro: vini primitivi/vini tecnici, biodinamica/scienza, lieviti spontanei/lieviti selezionati, pagamento in contanti/bonifico alla moglie per prezzolare i “giornalisti specializzati”, e via andare.

Le relative fazioni si fronteggiano aspramente. Pochi concedono il beneficio del dubbio all’altra parte. Tutti abbracciano il tifo da stadio, acritico, cieco; in questo essendo perfettamente coerenti con lo zeitgeist, con lo spirito del tempo (vedansi le analoghe manifestazioni di totale mancanza critica in politica o nella visione sulla salute pubblica).

Un motivo di discussione, se non proprio di scontro polemico, insiste nell’opposizione “vino da taglio/vino da singola vigna”. Il problema in tutta evidenza non si pone se un vignaiolo può vinificare uve provenienti da una singola parcella di – per dire – un ettaro.
Quella terra vitata possiede, quella si sciroppa.

Ma se invece si viene a nomi blasonati quali ad esempio il Barolo, apriti cielo. “Nella tradizione si raccoglievano uve da vigne diverse e si faceva un solo Barolo, non esisteva in etichetta l’indicazione di cru specifici, era casomai un’eccezione”. “Sì però ogni cru ha una sua timbrica, i Barolo di Cannubi non sono i Barolo della Rionda, né quelli di Monvigliero”.
Sì però un grande come Bartolo Mascarello, pace all’anima sua, faceva un solo Barolo da vigne diverse, così come Beppe Rinaldi, pace all’anima sua, faceva un solo Barolo da vigne diverse.” “Sì però” eccetera.

Una particolare convinzione filosofica porta all’esasperazione il concetto di cru: “un vigneto, una parcella, un vino” è il motto de I Parcellari, firma molto giovane del vino piemontese. Qualche mese fa mi ha scritto Davide Canina, il fondatore dell’azienda che ha sede a Govone, nel Roero (ma a pochissima distanza dall’astigiano). Dopo un paio di piacevoli chiacchierate ho potuto assaggiare alcuni vini, prodotti con la collaborazione con Agostino Malvicino (che a dispetto del cognome vagamente ostile si è rivelato, pare, un confinante molto cordiale).

Sono attualmente sul mercato una settina di etichette: uno Chardonnay, un Sauvignon, un Grignolino, una Barbera, un Ruchè, un Nebbiolo, un Albarossa. Li accomuna uno stile sobrio, che si tiene al riparo da effettacci esibizionistici in termini di potenza estrattiva o di saturazione aromatica da rovere nuovo.

Personalmente ho apprezzato particolarmente il Sauvignon, fresco senza essere teso, mosso senza essere elettrico, agile senza essere ossuto; e soprattutto il Nebbiolo, davvero delicato nell’estrazione e sottile nello sviluppo aromatico. Certo,  tale Nebbiolo non ha la profondità e l’articolazione dei grandi rossi langaroli, ma nemmeno ambisce, a quanto capisco, ad averle.
Si beve di molto bene, senza scodate brucianti per l’alcol, e questo è già un pregio raro di questi tempi infuocati.

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