Con il Trebbiano d’Abruzzo di Valentini è il vino artigiano che va al potere. Diventato molto più di un caso, ha una storia che parte da lontano e ci parla di coerenza; proviene da una terra che non sta propriamente al centro del mondo (Loreto Aprutino), e il fatto che sia universalmente riconosciuto come etichetta di culto, per una volta, non ha avuto bisogno di chiamare in soccorso tutto l’armamentario di sragionamenti a cui solitamente si accompagna il “clangore” mediatico, per coprire di altezzosa prosopopea la sostanziale incomprensibilità di cotanto riconoscimento.
Qui è diverso, qui è tutto limpidamente chiaro: qui hai la nobilitazione del vino contadino, frutto del pragmatismo di un atto agricolo consapevole, e la “semplice” dimostrazione di uno speciale rapporto d’amore fra uomo e territorio. Qui hai soprattutto identità, sostanza, riconoscibilità.
Non un orpello, non una concessione alle mode, non uno scarto di lato rispetto a una linea filosofico-interpretativa tracciata indelebilmente su fondamenta di ecosostenibilità che sembra abbiano pescato i propri asserti agli albori del mondo, restituendoci un vino archetipico, un po’ nordico e un po’ mediterraneo, di enorme complessità e affermato potenziale evolutivo.
Un vino che nelle versioni di Francesco Paolo Valentini, rispetto a quelle dell’indimenticato padre Edoardo, ha assunto persino un maggior grado di definizione e puntiglio, confermato dalla indiscutibile perizia esecutiva. Meno umorale, insomma, se raffrontato a certe edizioni del padre, dove soprattutto ai profumi, e soprattutto se còlto in prima gioventù, non si faceva di certo mancare spunti dialettici (leggi divisivi), salvo poi ricomporsi mirabilmente negli anni, riuscendo ogni volta a fregarci di meraviglia.
Ecco, appunto, la longevità, un’altra dote a puntello del mito. Dalla stupenda verticale dedicata al Trebbiano dell’ultimo decennio ne abbiamo evinto la sostanziale gioventù dei campioni degustati. Nessuna nota evolutiva nei paraggi, nessuna piega crepuscolare nei profumi, ma un’ampiezza di passo corroborata sempre e comunque dalla freschezza acida, a connotare un bianco dal portamento signorile e quasi incorruttibile al tempo, capace di passare dalle asserzioni ai non detto con invidiabile disinvoltura, e in grado di sentire coerentemente le diverse annate da cui discende senza disperdere un grammo della sua riconoscibilità. Lo senti che è lui, lo senti già per come si annuncia, qualunque sia il tono di voce.
In realtà il vero imbarazzo, per uno scribacchino, è confessare l’inadeguatezza delle parole. Perché i pensieri, dopo una verticale così, hai voglia te se girano, colmi di suggestioni, di lampi, di intuizioni. Con una caratteristica però: rifuggire le parole, esigendo un altro vocabolario.
Forse perché una verticale come questa, in fondo, va ad incasellarsi fra le esperienze lisergiche, il cui scopo è quello di aprire le porte della percezione. Forse perché la devi solo sentire, per comprenderne appieno il potere di trascendenza, e il raccontarla rischierebbe di sconfinare miseramente in un atto piccolo, limitativo, inadeguato.
Dopo tanto navigare, d’altronde, un nostromo la terra non può che gridarla. Linee sghembe a frastagliare l’orizzonte, o bagliori di bruma a galleggiare sul mare, e la terra diventa un grido. Ancestrale, primitivo, liberatorio. E’ un qualcosa che rompe e irrompe, annunciando approdi, e quindi cambiamenti. Salvo poi, per dovere o per amore, riprendere il mare non appena sarà il caso, per ritrovarsi ancora di vedetta con un grido tutto nuovo appallottolato in gola.
Ecco, questa esperienza marca però una differenza: la terra avvistata è per restarci. E nella consapevolezza di stare a compiere un atto piccolo, io intanto provo a raccontarla.
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Trebbiano d’Abruzzo 2017
Discendere da un’annata calda e non darlo a vedere. Perché ha ritmo, dinamismo, contrasto, e un puntuale contrappunto aromatico che non fa che affermarne il rigore, la solidità, la droiture, fra sentori di nocciola tostata, polvere di caffè, frutti a polpa bianca e latenti echi limonosi, e dove il leggibile riverbero affumicato sembra provenire direttamente dalle profondità della terra.
Trebbiano d’Abruzzo 2016
Impettito da una acidità fremente, l’indole austera ne attesta l’estrema gioventù. E’ terragno, cerealicolo, flemmatico, carrozzato, i suoi profumi di grano esigono di portarsi il bicchiere sul cuore in segno di riconoscenza; il fondo ricorda l’anice e il lime, ma soprattutto la pietra focaia; la salinità è infiltrante, la purezza irraggiungibile ai più.
Trebbiano d’Abruzzo 2014
Una lama e una carezza. Grande nobiltà d’animo, eloquente trasparenza espressiva, cristallina fragranza, innervate di una acidità portante che letteralmente sostiene il sorso lungo tutto lo sviluppo. Rinfrescante, inesauribile, raffinato, sciolto, lunghissimo, dall’afflato balsamico e agrumato, è uno dei più grandi bianchi dei ricordi miei, pieno di istinto e pieno di complessità, di quelli che scavano sotto la superficie delle cose per andare a conficcarsi nel punto esatto dove nascono i sentimenti.
Integrità, freschezza (affilata) e materia soda. Parte lento, aprendosi via via per acquisire progressiva scioltezza grazie all’enorme salinità. E’ il più dichiaratamente salino dell’intera batteria, risolvendo così in persistenza le nobili ritrosie dell’attacco di bocca. Nel frattempo, i profumi si sono liberati dalle iniziali compressioni, contemplando umori di nocciola, fumé da minerale, erbe spontanee e curry. Un treno a vapore, questo è, dal passo cadenzato, in grado di lasciare tutti dietro alla distanza.
Trebbiano d’Abruzzo 2012
Non meno che elegante, dei suoi profumi lì per lì ne scorgi le rarefazioni, i sottotraccia, i non detto. Nulla di assertivo, bensì un coacervo di sensazioni sfumate, fra ricordi di spezie fini, resine boschive, nespola e nocciola. Al gusto è dritto, e ne apprezzi la freschezza; parrebbe persino affusolato, a ben vedere, se non fosse per quella discontinuità nella dinamica che si palesa a mezza via, con il sorso che si fa più largo, disperdendo un pizzico di propulsione pur mantenendo un tratto limpido e saporito. Insomma, solo ottimo.
Trebbiano d’Abruzzo 2010
“Elettrico” e torbato (nel senso della torba), profuma di grano, mentuccia, erbette, ginepro, ostrica. Anzi no, profuma di tutto, palesando un’invidiabile freschezza aromatica che si riflette in una bocca monumentale, che mescola rigore, tensione, profilatura, nerbo ed espansione. Non fa una piega al tempo, come se il tempo, in ossequioso rispetto, si fosse fatto da parte, per farci illudere della sua imperitura durevolezza. Impressionante, identitario, da qui al futuro.
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Degustazione effettuata nel mese di ottobre 2022
Grazie a Claudio Corrieri, per l’amicizia e le bottiglie
Contributi fotografici di Lorenzo Coli
Giornalista pubblicista toscano innamorato di vino e contadinità, è convinto che i frutti della terra, con i gesti che li sottendono, siano sostanzialmente incanto. Conserva viva l’illusione che il potere della parola e del racconto possa elevare una narrazione enoica ad atto culturale, e che solo rispettando la terra vi sia un futuro da immaginare. Colonna storica de L’AcquaBuona fin dall’inizio dell’avventura, ne ricopre da anni il ruolo di Direttore Responsabile. Ha collaborato con Luigi Veronelli e la sua prestigiosa rivista Ex Vinis dal 1999 al 2005; nel 2003 entra a far parte del gruppo di autori che per tredici edizioni darà vita alla Guida dei Vini de L’Espresso (2003-2015), dal 2021 rientra nell’agone guidaiolo assumendo il ruolo di referente per la Toscana della guida Slow Wine.